Affidarsi ai giornalisti per avere qualche (buona) idea sulla futura legge che regolerà le intercettazioni telefoniche non è una buona cosa. Non è affatto una buona cosa – e ha fatto male Matteo Renzi a lanciare il suo appello ai direttori – per la semplice ragione che il giornalista pubblica. Sempre e comunque. Non esiste sulla terra il giornalista che sulla base di un brogliaccio fa la scrematura di ciò che è buono e di ciò che è malvagio, insomma che si fa carico dell’etica pubblica, non tocca a lui, non deve toccare a lui. E quel ritornello moraleggiante secondo cui andrebbe pubblicato solo ciò che è attinente all’indagine (e tutto il resto mandato al macero) è un concetto del tutto astratto, a cui nessun giudice potrà mai dare una configurazione geometrica. Ci sono intercettazioni, apparentemente fuori contesto strettamente giudiziario, che sul piano della comprensione sociale di un fenomeno criminale spiegano meglio di una telefonata registrata tra due protagonisti.

Ai giornalisti va tolta in radice la possibilità di scegliere cosa pubblicare e cosa no. Qualcuno se ne deve assumere la responsabilità, altrimenti un giornale (tra i tanti) comunque pubblicherà. Questo qualcuno è il giudice. Il quale avrà la responsabilità di selezionare con grande senso di equilibrio e disciplina le migliaia e migliaia di pagine. E poi offrire alle parti la sua virtuosissima spremuta. Nel momento in cui le parti vengono in possesso delle carte, visto si stampi. Anche perché i giornali sono molti e molto diversi tra loro. Non soltanto per schieramento politico, ma per genere, argomenti trattati, sensibilità, esigenze editoriali.

Facciamo un esempio superconcreto, tanto per non ragionare sulle nuvole. Scandalo Calciopoli, enorme, di grande impatto sociale. A un certo punto, spunta un’intercettazione davvero gustosissima, ma che non c’entra assolutamente niente con l’indagine. Viene fuori che il figlio di Moggi, sposato ma evidentemente invaghito della bella conduttrice, ha imbastito con l’inganno un viaggio con un jet privato in cui ha invitato Ilaria D’Amico, che sale su quell’aereo credendo di andare in certo posto per lavoro, ma che poi si vede “dirottata” a Parigi per una cenetta a due con speranzoso seguito. L’illuso Alessandro Moggi, a inevitabile due di picche incassato, confesserà poi d’averci buttato – in quel sogno da mille e una notte – un bel diecimila.

All’epoca, sbattendosene allegramente della privacy dei protagonisti, tutti i giornali pubblicarono. Ma ragioniamoci oggi, a distanza di anni. Se l’episodio venisse reso pubblico direttamente dai giudici, rientrando quindi nella disponibilità delle parti e di conseguenza dei giornali, ci sarebbe forse qualche quotidiano (dubito) che si porrebbe la questione morale, evitando di pubblicare. Ma quale ragione etica si potrebbe opporre alle legittime ragioni di un settimanale che vive esattamente di queste cose, cioè di gossip, come si potrebbe imporre al direttore di un’ipotetica “Novella 3000” di non pubblicare, di non solleticare i suoi lettori con quel gustosissimo episodio, che peraltro costituisce il “core business” dell’impresa editoriale?

Come vedete, non c’è mediazione possibile. Ai giornalisti va tolta la possibilità di scegliere e questo immenso potere, il potere di scegliere cosa rendere pubblico e cosa no, deve ricadere interamente su una figura terza, che non ha il minimo interesse editoriale, a cui mettere in carico la terribile responsabilità di proteggere l’integrità delle persone quando gli atti non abbiano la minima attinenza con l’indagine, né rappresentino uno spaccato sociale di un qualche interesse (sempre riferito a quel contesto giudiziario, ovviamente). I magistrati sono queste figure, a loro questo delicatissimo compito.

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