La vicenda della Dama bianca, al secolo Francesca Gagliardi, arrestata lo scorso 13 marzo mentre cercava di fare uscire dall’aeroporto di Roma Fiumicino 24 chilogrammi di cocaina (leggi) stipati in un trolley ha contribuito ad alzare il velo sui traffici internazionali di droga che hanno come palcoscenico l’hub romano e come protagonisti agenti e militari infedeli che, in cambio di un fiume di denaro, riescono a intercettare i carichi di droga direttamente sulle piste di atterraggio per poi portarli fuori eludendo tutti i controlli.

Così la storia di Federica Gagliardi, la donna che nel 2010 era al seguito di Silvio Berlusconi in Canada in occasion e del G8, e dei tanti lati oscuri che ancora l’accompagnano (dall’auto posteggiata nella caserma della Guardia di Finanza, al fratello finanziere, come anticipato dal sito www.nottecriminale.it, fino alla mancata esecuzione degli ordini dei pm napoletani che non volevano l’arresto in aeroporto, ma successivamente alla consegna della merce), diventa solo l’ultimo capitolo dei traffici di cocaina che, grazie all’assidua e costante collaborazione di esponenti corrotti delle forze dell’ordine, hanno fatto dello scalo romano una delle principali porte d’ingresso della droga in Italia.

Sì, perché la mafia locale, dal clan Fasciani di Ostia ai Casalesi del Basso Lazio, ha capito da almeno dieci anni che il modo più sicuro e conveniente per far viaggiare la droga è nelle pance degli aerei che riportano a Roma dal Sudamerica ignari vacanzieri. Basta avere qualche angelo custode in divisa. E di angeli custodi in divisa all’interno dell’aeroporto di Fiumicino la mafia ne ha avuti parecchi in questi anni. Prima nel 2010 e poi nel 2012 uomini della Guardia di Finanza e della Polizia sono stati arrestati e condannati per aver fatto uscire dallo scalo romano centinaia di chili di polvere bianca destinati alla criminalità organizzata. A svelare per primo i meccanismi di questa organizzazione quasi perfetta è un esponente della prima banda di angeli custodi in divisa, Massimo Callari, maresciallo della Guardia di Finanza arrestato nel 2010 insieme ad altri due colleghi e a due ispettori della Polaria, il settore della Polizia di frontiera.

E’ un vero e proprio sistema quello descritto da Callari, un’organizzazione che si serviva, come si legge nei verbali d’interrogatorio, “anche di altri scali nazionali tra i quali Bologna e Malpensa”. Il maresciallo dopo l’arresto decide di liberarsi la coscienza disegnando alla perfezione il quadro in cui si muovevano lui e i colleghi, i destinatari, i quantitativi e le frequenze di questi “lavoretti”, come li chiamava Cesare Bove, l’ispettore della Polaria deus ex machina dell’organizzazione che riusciva a far uscire dall’aeroporto di Fiumicino anche 80-90 chili di cocaina purissima con una singola consegna.

La “gola profonda” Callari è stato trovato morto qualche settimana prima dell’arresto della Gagliardi, ufficialmente un suicidio, anche se aveva fatto richiesta di essere inserito tra i collaboratori di giustizia vista la mole d’informazioni che aveva dato. Dai verbali di interrogatorio di Callari si deduce che il sistema era già collaudato da tempo e che era relativamente facile portare decine di chili di cocaina purissima, stipati nei trolley, fuori dall’aeroporto eludendo qualsiasi controllo.

E la criminalità organizzata destinataria dei carichi di cocaina supportava al meglio la banda dei cinque “infedeli” fornendo cellulari “usa e getta” a prova d’intercettazione per permettere una comunicazione sicura tra finanzieri e poliziotti corrotti durante le operazioni, inviando le foto dei bagagli da prelevare ai nastri o direttamente sulla pista d’atterraggio e pagando profumatamente i corrieri in divisa: una media di 7–8 mila euro per ogni chilo di cocaina portato fuori dall’hub romano.

Un’organizzazione perfetta nella quale ogni attore in campo veniva retribuito per la sua prestazione, compreso chi forniva la macchina di servizio, per andare direttamente sotto bordo a prelevare i bagagli interessati, che riceveva un compenso di mille euro. Callari racconta tutto, anche “il forte pungente odore della cocaina” quando trasportava i “trolley milionari” dai nastri alle porte di servizio, talvolta incrociando i colleghi che gli chiedevano di chi erano i bagagli e credevano alle sue giustificazioni: aspetti della vicenda che lasciano molti interrogativi sul livello di sicurezza dell’aeroporto romano.

Un sistema collaudato, apparentemente infallibile, rovinato però da un’imprudenza o da un eccesso di sicurezza. Il 21 settembre 2010 un volo Blu Panorama, proveniente da Santo Domingo, atterra all’aeroporto di Fiumicino e dalla macchina di servizio ferma sotto la “pancia” dell’aereo dove vengono scaricati i bagagli esce uno dei membri della banda dei cinque infedeli, l’appuntato della Guardia di Finanza Pasquale Marciano. Estrae un coltello, strappa il telo in nylon che contiene le valige dei passeggeri e, dopo aver osservato sul suo telefono l’mms arrivato dalla città sudamericana con la foto dei bagagli in questione, prende le due valige dal carrello. Uno degli addetti della Blu Panorama protesta con l’appuntato, dovranno ripagare loro lo strappo fatto nel telone ma Marciano ha fretta e non ha tempo per continuare a discutere: una leggerezza che costerà cara a lui e ai suoi colleghi.

Una leggerezza di altro genere ha invece permesso di sgominare la seconda banda criminale composta da due finanzieri, Massimo Santacroce e Giuseppe Pinna, e altri affiliati non appartenenti alle forze dell’ordine. Tra i membri civili spiccano Vittorio Pacifici, imprenditore edile di Ostia che aveva l’incarico di contattare soggetti ricoprenti incarichi strategici presso l’aeroporto di Fiumicino, il porto di Genova e quello di Civitavecchia, e Piero Paciucci, gestore del club “La Dea del Mare” di Ostia, dove sono stati organizzati alcuni incontri operativi.

L’organizzazione criminale operava con le stesse modalità e la stessa tranquillità della precedente banda dei cinque infedeli ed è stata scoperta grazie alla collaborazione di Alessandro Tolu, un maresciallo della Guardia di Finanza che era stato avvicinato dal collega Santacroce per partecipare al business della droga. Tolu ha immediatamente riferito all’autorità giudiziaria il tentativo di corruzione, l’offerta di denaro fatta da Santacroce “affinché compisse un atto contrario ai doveri di ufficio (in particolare riferire notizie riservate e sensibili sullo svolgimento dei controlli di polizia relativi a determinati voli, ovvero sull’avvenuto scarico delle merci dal momento del loro arrivo sino all’ingresso nei magazzini, al fine di far transitare dei carichi di droga)” come si legge nella sentenza di primo grado con la quale sono stati condannati i componenti dell’organizzazione: 12 anni e mezzo al finanziere Pinna, 2 anni al collega Santacroce, 10 anni a Pacifici e 12 anni a Paciucci.

Pene poi ridotte in appello per Pinna (8 anni) e Paciucci (5 anni e 4 mesi). Pacifici invece è stato assolto. Grazie alle informazioni del maresciallo Tolu, che ha continuato a far finta di essere interessato al business per poter ottenere notizie importanti ai fini del buon esito dell’indagine, che è proseguita con intercettazioni telefoniche e ambientali supportate dai servizi di osservazione sul campo. Leggendo le dichiarazioni rilasciate da Tolu ai giudici, come esaminando i verbali di Callari, si ha la sensazione che ci fosse un vero e proprio sistema messo in piedi da tempo. “Alessandro Tolu – si legge nell’ordinanza – dichiara che Santacroce gli ha detto ‘che egli stesso era una pedina di una più ampia organizzazione’…’Affermava senza fornire ulteriori dettagli sulle persone coinvolte che questo tipo di attività viene già posta in essere almeno 4 o 5 volte la settimana’”. Per la seconda volta nel giro di pochi anni una banda composta da infedeli in divisa è stata sgominata ma i dubbi sulla sicurezza dell’aeroporto della capitale rimangono.

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