Dum loquimur fugerit invida aetas: carpe diem, quam minimum credula postero”. “Mentre parliamo il tempo sarà già fuggito, come se ci odiasse: cogli l’attimo, confidando il meno possibile nel domani”, scriveva il poeta latino Orazio nelle sue Odi, facendo di quel “carpe diem/cogli l’attimo” una massima destinata a durare nei secoli e ad arrivare intatta fino ai giorni nostri. Ma siamo sicuri che l’espressione sia rimasta proprio così intatta e non si sia anch’essa adeguata ai tempi che corrono? Come si può intendere oggi il “carpe diem” nell’epoca del precariato?

Per Orazio il “cogli l’attimo” esprimeva un’accorata esortazione a vivere il presente, in quanto l’unico tempo che può essere realisticamente vissuto, all’uomo non è dato di conoscere il futuro né di determinarlo, la sua azione ha un effetto tangibile esclusivamente nel qui ed ora. Le occasioni vanno colte, gli eventi e le emozioni ad essi collegati vanno vissuti quando si verificano, non prima. Orazio probabilmente sarebbe decisamente contrario, ad esempio, a quella che, in linguaggio psicologico, definiremmo ansia anticipatoria. Inutile preoccuparsi di qualcosa che potrebbe accadere perché il potrebbe non è una certezza, ma una possibilità, lo si farà se e quando quel qualcosa accadrà. Se non dovesse poi verificarsi l’evento temuto, ci si è preoccupati per nulla, mentre, anche se dovesse verificarsi, essersene angosciati in anticipo non diminuisce certo l’ansia contingente all’evento. La responsabilità del nostro modo di vivere è inderogabile, non possiamo esimercene ed il tempo passa e non torna indietro.

Il “carpe diem” è un messaggio traboccante di buon senso, meno di realismo, l’uomo si cruccerà sempre per il proprio futuro, ma sicuramente la filosofia di vita che sottintende è auspicabile e fatta di una ferrea logica (e questo dimostra come l’uomo non di sola logica viva). Oggi più che mai il “carpe diem” da auspicio filosofico è diventato inevitabile abitudine necessaria alla sopravvivenza. In epoca precaria, “cogliere l’attimo” sembra essere l’ultimo baluardo contro l’abbattimento di fronte all’impossibilità di costruirsi un futuro su basi solide che molte donne e uomini della mia generazione e di quelle a loro vicino vivono. Molte persone si stanno abituando (si sono già abituate?) all’idea che bisogna pensare all’instabilità come ad una condizione stabile. Ci si ribella a quel che devia dalla norma, ma se la devianza cambia lentamente fino a diventare la norma, non si ha più nulla a cui ribellarsi.

Oggi si lavora e si percepisce di che vivere, domani chissà o viceversa oggi non lavoro, ma domani qualcosa spunterà fuori, è così che ormai va sempre. E’ diventata la consuetudine, in quanto, nel bene o nel male, accettata ed in vigore. Mal comune mezzo gaudio e chi si accontenta gode, se proprio non vogliamo scomodare Orazio. Non si vive, si sopravvive, l’arrangiarsi diventa una forma d’arte nella quale si impara ad eccellere in bilico tra l’acceso scoramento di certi momenti ed il pensiero“tutto sommato lo stretto necessario non mi manca”. Pensare al futuro implica angosce che, nel presente, hanno maggiori possibilità di essere sedate ed allora viviamo il tempo attuale.

Il “carpe diem” degli anni duemila è ben lungi dal ricalcare lo spirito del poeta romano, ma paradossalmente è un moto di pensiero che rimane intrappolato in un significato tra il salvifico (permette di non abbattersi) e la condanna (fa credere che le cose non possano andare altrimenti e, se non c’ è niente da fare per cambiare lo stato delle cose, niente si fa). “Cogli l’attimo” per sopravvivere, non per scelta consapevole, ma per difesa, più o meno consapevole, più o meno accettandolo. Contattare il dolore e la fatica dell’incerto non è possibile senza farci vacillare ed allora finché c’è da arrabattarsi c’è speranza, di cosa non saprei dirlo.

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