Ci vorrà ben più dei coriandoli bianchi rossi e verdi e della performance dei ballerini vestiti da marinai per convincere i risparmiatori che la prima privatizzazione dell’era Renzi sia stata un successo. Lo spettacolo andato in scena giovedì mattina in Piazza Affari, in occasione del debutto in Borsa di Fincantieri, non è stato di buon auspicio. Sarà che davanti al telone blu-marine e alle navi di cartapesta campeggiava come sempre il “Dito” di Cattelan, ma dopo il mezzo flop del collocamento anche l’esordio sul listino si chiude in sordina. Al termine della seduta il prezzo risulta invariato, a 0,78 euro per azione. Calma piatta, altro che onde del mare. Sui 450 milioni di titoli collocati, nel primo giorno di contrattazione solo 26 milioni sono passati di mano. E non stupisce, considerato che quasi il 90% delle azioni è finito nelle tasche del pubblico retail, ovvero i “cassettisti”. Poco inclini in generale al trading di Borsa, e tanto meno in questo caso, alla luce della bonus share (una ogni 20 acquistate) prevista per chi terrà le azioni in portafoglio almeno 12 mesi. Per loro si prospettano tre anni a bocca asciutta, senza dividendi. Ed è più o meno l’unica certezza, visto che a ben guardare, come evidenziato da ilfattoquotidiano.it, il gruppo ha in pancia 700 milioni di debiti non conteggiati a fronte di una capitalizzazione che, al prezzo di collocamento, si attesa a 1,32 miliardi. 

Insomma: se il buongiorno si vede dal mattino, i risparmiatori farebbero bene a non aspettarsi troppo dalle prossime privatizzazioni di aziende pubbliche, da cui il governo Renzi si aspetta di ricavare ogni anno cifre pari allo 0,7% del Pil. Chissà poi quando arriverà la prossima, visto che, per esempio, nel caso di Poste Italiane l’ad Francesco Caio ha già iniziato a frenare sullo sbarco in Borsa. Eppure per l’ad di Fincantieri, Giuseppe Bono, meglio di così non poteva andare. Durante la cerimonia del suono della campanella a Palazzo Mezzanotte, il manager si è detto “molto soddisfatto di aver portato 350 milioni nelle casse della società”, che “due anni e mezzo fa era considerata fallita”. E ha sostenuto che “fin dall’inizio” quella di Fincantieri “era un’operazione di retail. Avendo noi un fondo tra i nostri maggiori azionisti non poteva andare diversamente”. Falso, dunque, che gli investitori istituzionali (a cui inizialmente, va ricordato, era destinato l’80% delle azioni) abbiano snobbato l’operazione giudicandola poco allettante. O meglio: secondo Bono questa è solo un’interpretazione dei giornalisti, “gente inutile che non sa di che parla”. E non riconosce che “quest’anno solo noi abbiamo avuto il coraggio, le palle, di portare un’azienda industriale sul mercato”. Quanto ai fondi e agli investitori stranieri, che per ora si sono tenuti ben lontani, “alla prossima bolla finanziaria arriveranno le mazzate, mentre le navi dovremo sempre farle”. Chi invece le azioni le ha comprate già a questo giro? “Abbiamo un platea di azionisti ai quali dobbiamo dare un giusto rendimento nei prossimi anni”. Dopo i tre di “moratoria” sui dividendi, si intende.  

Lenti rosa anche per Giovanni Gorno Tempini, ad della Cassa depositi e prestiti, che attraverso Fintecna ha la maggioranza di Fincantieri. E, vista la malaparata, la scorsa settimana ha rinunciato a mettere in vendita 104 milioni di azioni che le avrebbero fruttato oltre 80 milioni. “Non abbiamo voluto vendere perché abbiamo fiducia nell’azienda”, ha detto Gorno. Peccato che questa esegesi faccia a pugni con quanto detto quindici giorni fa dal presidente di Cdp Franco Bassanini. Che, all’avvio dell’offerta pubblica, pronosticava la possibilità di un futuro ulteriore “aumento della quota collocata sul mercato”.

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