Tempo di chiusura anche per la scuola di Rebibbia, arrivano gli esami di Stato. Meglio non parlare di maturità per una classe in cui il più giovane è nonno. Così si è dichiarato un “romanaccio” rasato, tatuato e prestante ma dai modi assai gentili; dal punto di vista didattico indiscutibilmente un bravo ragazzo, da 10 in condotta. In burocratese scolastico diremmo “interessato al dialogo educativo”, cioè attento a ogni contenuto propostogli nel corso delle lezioni e molto abile ad applicare le conoscenze apprese nell’interpretazione dei fenomeni d’attualità. Dopo l’esame orale, tra l’incredulità generale, la rivelazione: “C’ho ‘na nipotina”. Ma come è possibile? “E sì, ho avuto una figlia a 17 anni e pure lei l’ha fatta a 17”.

Il più anziano invece è un toscanaccio sulla cinquantina: una incredibile serie di disgrazie che nel giro dell’ultimo anno gli ha fatto perdere, uno dopo l’altro, i suoi famigliari più cari. Se non bastasse, gli hanno riscontrato e asportato d’urgenza un carcinoma che ostruiva le corde vocali. È venuto a scuola completamente afono e debilitato, ma tutto ciò non gli ha impedito di affrontare e probabilmente vincere la particolare competizione che aveva intrapreso con sua figlia. Anche lei, infatti, è alle prese con gli esami conclusivi delle scuole superiori ma non credo possa eguagliare il padre che, studente eccellente, ha ottenuto la votazione di 92/100.

Stiamo parlando della classe di quel tale già noto a chi segue il mio blog per essere stato l’unico, nei miei tanti anni di insegnamento in carcere, che ha rinunciato a una misura di libertà alternativa alla detenzione. E l’ha fatto proprio per completare gli studi: non tanto per il diploma quanto soprattutto per uscire con un bagaglio di conoscenze e attitudini che gli permettano di affrontare meglio la realtà socio-economica attuale. E evitare di trovarsi nelle condizioni di dover commettere nuovi reati per vivere.

C’era anche l’imam di Rebibbia, ragazzo serissimo, talmente devoto da fregiare ogni pagina dei suoi precisissimi appunti con una piccola scritta a margine che, come una decorazione nei coreografici caratteri arabi, reca “Allah è grande”. Come studente è capace e desideroso di imparare, con l’unico impedimento costituito, naturalmente, dalla lingua. Fa sempre una certa impressione vedere come un semplice esame scolastico possa mettere in apprensione chiunque (anche, in altre occasioni, chi si immagina possa aver commesso chissà quali delitti) e il tunisino all’inizio del colloquio orale è scoppiato in un accorato: “Scusatemi, ho delle difficoltà, cercate di capirmi, questa non è la mia lingua, io devo pensare in un modo e poi parlare in un altro, perdonatemi se non sono preciso”. Giustificazione sincera, ma inutile in quanto, come sapevamo noi commissari interni che l’abbiamo seguito in questi anni, si tratta di una persona che ha una conoscenza vasta e approfondita delle materie di studio e una proprietà di linguaggio (forse anche per la conoscenza del francese molto praticato dalle sue parti) da far invidia alla maggior parte dei nativi italiani.

Poi c’è uno che è in carcere da otto anni. Di intelligenza rapida e spirito vivace, partecipa a tutte le “offerte dell’area educativa e trattamentale”: lavora, studia, segue corsi, fa teatro. Solo di recente ha “sbloccato”, cioè gli è stato concesso un permesso premio con cui è potuto tornare a casa a riabbracciare la sua famiglia. Ha promesso al proprio figlio, che sta crescendo senza di lui, che per la prima volta sarebbe stato presente al suo compleanno. È inimmaginabile quanto una cosa del genere possa diventare vitale per un detenuto. Il magistrato di sorveglianza che esamina le sue istanze concede permessi (sono complessivamente 45 giorni l’anno) solo dopo intervalli non inferiori al mese. Così il tipo si è impegnato e ha calcolato di tutto per non mancare a quell’appuntamento. Quando escono, i detenuti devono recarsi nella più vicina caserma dei carabinieri o della polizia per farsi registrare. Alla domanda se avesse documenti con sé, ha risposto di no: aveva il passaporto, ma presso l’ufficio matricola del carcere. “Quindi non è in possesso di documenti?”, “No, non ce l’ho”, ha ribadito toccandosi le saccocce. Pochi giorni dopo l’amara sorpresa: denunciato per aver dichiarato il falso. Si potrebbe trattare di una cosa da poco, che finirà probabilmente archiviata ma intanto il semplice avvio del procedimento ha una conseguenza immediata: blocco di qualunque beneficio di legge. Niente permessi, niente compleanno tra un mese. Scoramento totale, al punto che voleva rifiutarsi di fare l’esame orale e tutta la commissione si è spesa per convincerlo a completare la prova. Subito dopo si è messo in sciopero della fame.

Va detto che la condizione “normale” dei condannati è che i benefici di legge e le misure alternative alla detenzione  arrivano, se arrivano, dopo lunghi anni e dopo un percorso irto di difficoltà che va superato con un comportamento davvero impeccabile. L’affidamento ai servizi sociali, ad esempio, è uno dei punti d’arrivo più ambiti di quel percorso di riabilitazione e reinserimento. Queste regole valgono per tutti ma non per qualcuno.

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