Testa o croce. C’è il 50% di probabilità che Buenos Aires faccia di nuovo default. A dirlo è l’agenzia Standard and Poor’s, che ha messo sotto osservazione negativa il rating sovrano dell’Argentina sui depositi in valuta estera avvertendo che il rischio di un crac finanziario simile a quello del 2001 è elevato. E c’è una possibilità su due, appunto, che la casa Rosada non riesca, entro il periodo di garanzia di 30 giorni, a trovare un accordo con i fondi speculativi evitando così il nuovo default del Paese. Il giudizio arriva dopo che, il 30 giugno, la Casa Rosada non ha rispettato la scadenza prevista per il pagamento ai creditori che hanno aderito al concambio di 539 milioni di dollari di interessi sulle obbligazioni in loro possesso. Martedì anche Fitch aveva evidenziato un “alto rischio che l’Argentina non effettui i dovuti pagamenti” entro la fine del periodo di grazia fissato per il 30 luglio. In quel caso anche da parte di quest’altro big del rating arriverebbe una bocciatura.

La causa scatenante, come è noto, è che dopo il default del 2001 alcuni hedge fund non hanno aderito alla ristrutturazione del debito decisa in due tappe, nel 2005 e nel 2010, e hanno fatto causa al Paese. Il giudice della Corte Suprema americana Thomas Griesa ha fermato l’operazione di pagamento dei creditori consenzienti, sostenendo che l’Argentina può rispettare i suoi obblighi nei loro confronti solo se in contemporanea paga anche 1,5 miliardi di dollari ai fondi speculativi che hanno rastrellato i ‘Tango bond’ a seguito della bancarotta del 2001.

La trattativa con i fondi, però, non sembra fare passi avanti. Il capo del gabinetto presidenziale Jorge Capitanich ha detto che la controparte si rifiuta di negoziare e “non si è mai seduta al tavolo della trattativa, rifiutando sistematicamente tutte le possibilità di farlo”. Questo nonostante esista “la volontà del governo argentino di promuovere le condizioni per una negoziazione“, “preservando quello che l’Argentina ha già fatto, ovvero una ristrutturazione” del suo debito con i detentori di bond che hanno accettato il concambio. Gli hedge fund, secondo Capitanich, “non hanno trovato un’altra via che non fosse quella di azioni dirette, aggressioni, campagne di lobby nel Congresso americano”, dimostrando che “i fondi avvoltoio si chiamano così appunto perché non vogliono negoziare”.

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