Né una vittoria, né una sconfitta. Solo fuffa. Eppure, le conclusioni del Vertice europeo del 26 e 27  giugno sono subito diventate, alla vigilia della presidenza di turno italiana del Consiglio dell’Ue, terreno di scontro tra il governo, che le presenta come un successo che apre margini di flessibilità all’Italia, e l’opposizione, che le legge come una disfatta che condanna l’Italia, di qui a pochi mesi, a un’ulteriore ennesima manovra.

In realtà, il Vertice europeo è stata la solita manfrina del tutti insieme al minimo comune denominatore, mascherando le differenze dietro la genericità delle formule. Senza volere dimenticare il balletto delle bozze, con l’arretramento – ed è solo un esempio – tra “il pieno uso” ed “il buon uso” dei margini di flessibilità previsti da Trattati e impegni esistenti.

Leggetevi, anzi leggiamoci, il comunicato ufficiale del Vertice sull’ “agenda strategica dell’Unione in una fase di cambiamento”: “Il Consiglio europeo ha concordato cinque priorità a lungo termine che guideranno il lavoro dell’Ue nei prossimi cinque anni: economie più forti e più posti di lavoro; società capaci di consentire ai cittadini di realizzarsi e di proteggerli; un futuro sicuro per l’energia e per il clima; un’area affidabile di libertà fondamentali; un’azione congiunta efficace nel Mondo”.

Ora, quale sarebbe il governo o l’Istituzione che non sottoscrive obiettivi del genere? E in che modo averli accettati e condivisi può costituire una vittoria o una sconfitta?

Presentando, oggi, a Roma, il programma della presidenza di turno lettone del Consiglio dell’Ue, che seguirà quella italiana, il ministro degli esteri di Riga Edgars Rinkevics, ormai un veterano dell’Union , s’è quasi schermito nel citare la prima priorità, crescita e occupazione, riconoscendo l’inevitabilità, e nel contempo la ritualità, di quella che è diventata una sura laica. Forse, piuttosto che fare esercizi di real politik gabellandoli per passi avanti o, peggio, svolte, è meglio immergersi in esercizi, magari visionari, ma stimolanti, per immaginarci l’Europa come davvero la vorremmo.

E’ quello che ha provato a fare l’Istituto Affari Internazionali, con il progetto – appunto – ‘Imagining Europe’, le cui conclusioni sono state appena presentate a Roma. Al posto di mettere pecette, lo studio dello Iai, l’Istituto creato da Altiero Spinelli, che proprio oggi ‘presta’ il suo presidente, l’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, alla Commissione europea come membro italiano, si chiede “quali modelli di governance possano riparare il danno” fatto all’integrazione europea dalla crisi economica e dalla risposta datale da Istituzioni e governi. Se l’obiettivo è davvero promuovere “nei decenni a venire un’Unione più coesa ed efficace e meglio legittimata”, bisogna esplorare traiettorie di governance in cinque aree specifiche: le finanze pubbliche e la moneta comune; l’immigrazione e la cittadinanza; la sicurezza e la difesa; le infrastrutture e le comunicazioni; l’energia e l’ambiente.

Se non si vogliono sprecare i prossimi cinque anni, l’agenda strategica adottata da Van Rompuy e dai suoi sodali non può fare da bussola: ci lascerebbe girare in tondo, come una trottola. Meglio avere una visione, piuttosto che un’agenda, a rischio di perdere per strada qualche pezzo, ma aumentando la coesione, approfondendo l’integrazione, esaltando la democraticità delle istituzioni e, quindi, delle scelte.

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