In Spagna è in corso una protesta dal basso contro le trivellazioni petrolifere. In pochi mesi la popolazione è scesa in piazza quattro volte per opporsi al piano di estrazione della multinazionale privata Repsol al largo delle isole di Lanzarote e Fuerteventura. L’ultimo corteo l’11 giugno, nell’isola di Gran Canaria, per contestare la visita di José Manuel Soria, ministro dell’Industria, dell’Energia e del Turismo. Prima ancora, il 7 giugno, gli spagnoli hanno espresso in massa il loro dissenso in diverse regioni: cifre indipendenti parlano di 200mila manifestanti (secondo il Governo, invece, 47mila). La richiesta condivisa è che i cittadini delle Canarie (foto fa Facebook) vengano consultati attraverso un referendum sulla questione del petrolio. Il Governo delle isole e buona parte del Parlamento autonomo locale hanno già ribadito la contrarietà all’estrazione ma il premier Mariano Rajoy non sembra volere ascoltare. Tra i motivi ufficiali della posizione del governo la creazione dei posti di lavoro in un momento di grave disoccupazione. Le stime, al riguardo, restano contraddittorie: inizialmente la Repsol aveva parlato di 52.000 posti di lavoro che poi sono scesi “da 3mila a 5mila”.  

In ogni caso si tratta di cifre che non sono commisurate al rischio, secondo Eliana Cabrera Silvera, attivista contro il progetto di trivellazioni e amministratrice del sito Facebook “Difendiamo le Canarie dal petrolio”, specie se rapportate con le 500.000 persone impegnate direttamente e indirettamente nel turismo. “Eventuali perdite di greggio, più o meno gravi, creerebbero enormi problemi per il consumo di acqua potabile delle isole che viene presa dal mare e poi desalinizzata e allontanerebbero i 12 milioni di turisti che arrivano ogni anno alle Canarie e che sono molto esigenti rispetto alla qualità ambientale – spiega Cabrera Silvera. – Senza contare che si vuole trivellare in un luogo ad alto rischio sismico, fino a 5000 metri di profondità sotterranea, condizioni paragonabili a quelle della Deepwater Horizon che provocò il disastro del Golfo del Messico”. 

La questione dell’estrazione del petrolio alle Canarie va avanti da anni: è iniziata nel 2001 con il governo di Aznar, fermata nel 2004 dal Tribubale Supremo, ripresa nel 2012 con il primo via libera del governo di destra di Rajoy. Il dissenso si è subito fatto sentire ed è montato nel tempo portando la petizione www.savecanarias.org a raccogliere oltre 200mila firme. Dalla parte di chi vuole “salvare” le Canarie dal petrolio ci sono anche molti italiani. Difficile fare un censimento, ma negli ultimi anni sono tanti quelli che hanno scelto di andare a vivere nelle isole vulcaniche dell’Atlantico al largo della costa africana. Per avere un’idea della situazione basta considerare che gli italiani sono la principale nazionalità di immigranti dal 2012 (40%) in diverse località, che soltanto una delle loro varie pagine Facebook da sola raccoglie quasi 9mila membri e che esistono giornali locali in italiano.  

Adesso si attende che la Suprema corte di Spagna si pronunci sui sette ricorsi che diverse istituzioni e associazioni – i governi di Lanzarote e Fuerteventura, il governo regionale delle Canarie, la Fundación César Manrique, Izquierda Unida (partito di sinistra), e Wwf e Ben Magec – Ecologistas en Acción) – hanno avanzato dal 2012, quando sono stati dati i permessi dal ministero. “È assurdo che il governo non ci ascolti – conclude Cabrera Silvera. – Quanto sta accadendo mi ricorda molto certe battaglie italiane, come quella alle Tremiti. Ci vengono a dire che se non trivelliamo noi lo farà il Marocco dalla sua parte della frontiera. In questo modo però si sposta il focus del problema. Viviamo in Paesi che hanno ottime potenzialità per quanto riguarda le energie rinnovabili. Puntiamo su queste, invece di devastare l’ambiente”.

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