Roland Topor a Parigi, 1959 - foto © Mario Dondero

Mario Dondero è uno tra i fotografi italiani più intensi, intensità che ti arriva addosso a ogni passo e a ogni respiro dell’uomo Dondero. Uno dei rari casi in cui la continuità tra opera e modo d’essere è totale. La passione, l’impegno civile, la curiosità muovono da sempre le sue scelte, e li ritrovi – quasi per osmosi – in ogni sua foto.
Un pozzo di racconti e aneddoti generati da una cultura onnivora, che si starebbe ad ascoltare per giorni come ipnotizzati (sentite questi podcast di Radio 3).

Fino al 25 luglio c’è a Milano una mostra che presenta alcune sue fotografie, e nel cui titolo pulsa già quella delicatezza empatica tipica di Dondero: Posso farle una foto?
Ma rispetto alle mostre – va detto – Dondero dichiara un certo distacco antinarcisistico, quasi il disinteresse del fotogiornalista che predilige vedere le sue foto diffuse in maniera più pervasiva e orizzontale tramite la carta stampata.
Essendogli tuttavia dedicate, suo malgrado, mostre ovunque, in un’intervista ebbe a dichiarare: «Ho capito che le mostre sono l’occasione per incontrare la gente: a me più che l’esposizione prima, piace la trattoria dopo».
Insomma fotografia come mezzo e non come fine. Fotografia come occasione.
Tanto per ribadirlo, in un’altra intervista sottolinea: «Deve sempre rimanere chiaro che per me fotografare non è mai stato l’interesse principale. Ancora oggi non mi reputo un fotografo tout court. A me le foto interessano come collante delle relazioni umane, o come testimonianza delle situazioni. Non è che a me le persone interessino per fotografarle, mi interessano perché esistono».

Mario Dondero, 2014 (foto © Leonello Bertolucci)

Dunque un fotografo di parole, di relazioni, un fotografo… da trattoria.
E qui iniziano le “coincidenze”: la parola italiana trattoria ha un’assonanza con quella francese trottoir, che però significa marciapiede. E Dondero è anche fotografo da marciapiede, fotografo di strada, fotografo viaggiatore, al punto che in un libro a lui dedicato egli venne ribattezzato Donderoad.
Poi Dondero nel 1955 si trasferì davvero a Parigi rimanendoci 30 anni, dove fra trattorie e marciapiedi divenne amico di tutti i più grandi intellettuali francesi.
Prima ancora i marciapiedi erano quelli di Milano, la trattoria era il Jamaica a Brera, e qui conobbe tutta la cerchia dei “futuri famosi” che bazzicavano il locale di Mamma Lina, tra cui Ugo Mulas.

Succede un’altra cosa, nell’attuale Milano fotografica: la mostra di Dondero si chiude il 25 luglio, e due giorni dopo si apre la colossale mostra Genesi di Sebastiao Salgado (Palazzo della Ragione, dal 27 luglio al 2 novembre).
Sembra quasi che Dondero, con discrezione, si faccia da parte in punta di piedi per lasciare tutta la scena al “divo” Salgado, uno dei fotografi di maggior successo planetario. Le due presenze non si sovrappongono, a Milano, neanche per un giorno, e trovo questo fatto – certamente una semplice coincidenza casuale – altamente simbolico, quasi la metafora di due “mondi” le cui orbite non s’incrociano mai in quella galassia che viene genericamente chiamata Reportage.

Pasolini e la madre, 1962 (foto © Mario Dondero)

Due visioni (entrambe con le proprie valide motivazioni, e non sta certo a me fare da arbitro) che Dondero sintetizza così, riferendosi alla produzione di Salgado (non tanto l’ultima di Genesi quanto le precedenti): «Polemizzo sempre con Sebastiao Salgado, perché fa foto troppo belle sulle tragedie umane e sul lavoro. Fotografie che ti fanno scordare il contesto. La qualità estetica di quelle immagini induce quasi ad ignorare il soggetto primo della foto, che spesso è la sofferenza. Anche davanti a questa foto non pensi più che quel bambino dorme così perché è stanco morto e non ha un posto per riposare. Chissà, i fotografi che verranno saranno forse più umanisti e avranno più interesse alla condizione delle persone».

E’ una questione sempre calda: chi asserisce che una fotografia per farsi largo nell’indistinto “rumore visivo” e imprimersi nelle coscienze deve avere anche grande forza estetica, chi invece trova nell’assenza di filtri autoriali e mediazioni interpretative la vera forza detonante. Nelle foto di guerra, tanto per fare un esempio, lo stile diretto e ruvido di Don McCullin spesso viene contrapposto a quello attentamente pesato e “iconizzato” di James Nachtwey.

Non so chi ha ragione, né se esiste una buona ragione per decidere se qualcuno ha ragione. Forse la più radicale tra le distinzioni, l’unica possibile, è ancora la più “semplicemente difficile” al di là di generi, gusti, opinioni: una fotografia o è buona o non è, come un brano musicale, una scultura o… un risotto.
E allora dai Mario, andiamo in trattoria, che tra un bicchiere e un buon risotto ascolterò le tue foto tutta la sera!

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