“Sono con me, fateli entrare”. Ed è così che con Don Mimmo entriamo al molo Favarolo. Nella banchina del porto la Caritas è già arrivata, io varco il cancello insieme a Marta, la mia collega, dicendo che sono un operatore del progetto Mediterranean Hope che da pochi mesi ha aperto a Lampedusa un osservatorio permanente sull’immigrazione. Percorriamo la piccola discesa e subito ci troviamo sulla panchina usata dalla capitaneria di porto per il trasbordo dei migranti. Poche decine di metri di cemento scarno ed austero, con tre piccoli gazebo per ripararsi dal sole che qui picchia forte. Gli eritrei sono fermi lì, seduti uno vicino all’altro, intrecciati quasi a formare una catena che arriva fino alla fine del molo. Molti di loro sono scalzi, e basta guardare i loro occhi per capire che il loro percorso migratorio è stato durissimo.

In cima uomini e ragazzi, in fondo donne e bambini, questi ultimi sono liberi di giocherellare con i militari. Uno di loro vuole prendere un pallone usato come boa dai pescatori, cerca di invogliare un capitano dei carabinieri a farselo tirare a riva, ma la corda è troppo pesante ed alla fine la palla rimane dov’è, in mezzo al mare come i loro parenti ed amici. Ci raccontano che hanno dovuto lasciare la loro terra per causa della guerra, ci chiedono notizie di un altro barcone nel quale viaggiano amici e familiari. Quel barcone molto probabilmente – ci diciamo tra di noi quasi per scaramanzia – è stato già raggiunto dalle navi di Mare Nostrum che presto arriveranno in Sicilia.

Lampedusa che prima era il punto di approdo principale per chi fuggiva da fame e carestia ora è diventata una variabile secondaria. Qui i migranti approdano solo quando il flusso è talmente numeroso da non poter essere accolto sulle navi militari. Questo approdo è quindi per certi aspetti inconsueto. Il centro di accoglienza, quello che nel 2011 esplodeva di rabbia illuminando il cielo con il fuoco acceso di chi non voleva essere respinto oggi infatti è chiuso, “in fase di ristrutturazione”. Le 271 persone dopo una lunga attesa sul molo vengono imbarcate nella nave civile che collega l’Isola alla Sicilia. Nave che però non arriva perché c’è mare mosso, nave che non imbarca perché c’è lo sciopero dei portuali (che non prendono lo stipendio da mesi). Nave che infine partirà dopo ore di attesa grazie al sindaco di un’isola che ancora una volta si vede costretto a caricarsi sulle spalle compiti e responsabilità che non gli appartengono.

Lampedusa, porta d’Europa, l’isola che era diventata il centro della retorica dell’emergenza durante il governo Berlusconi almeno per ora è uscita dalla scena principale. Che questo sia un bene o un male per i lampedusani e per i migranti è ancora da capire, certo è che quello che accade, il più delle volte è lontano dai nostri occhi. Le navi di Mare Nostrum hanno infatti il proprio baricentro operativo molto più a Sud, vicino alle coste libiche dove meno di un mese fa è avvenuta l’ultima tragedia nel Mar Mediterraneo. A fronte di un fenomeno immenso come quello della pressione di chi fugge dalle guerre, un’operazione come Mare Nostrum contribuisce a ridurre il rischio che si verifichino tragedie come quella del 3 ottobre, ma non lo eliminerà.

Se in Siria, in Eritrea, in Nigeria, in Somalia, la situazione resterà tale a quella che è molto probabilmente il flusso dei richiedenti asilo e dei rifugiati sarà destinato ad aumentare, e per rispondere in maniera dignitosa a tutto questo occorrerà evitare che i barconi partano. Aprire un corridoio umanitario potrebbe allora diventare una valida alternativa da prendere in seria considerazione.

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