Oggi sono state corse due tappe: una con la biciletta, l’altra con le polemiche. Quella sportiva si è svolta da Sarnonico a Vittorio Veneto, 208 chilometri da velocisti o fuggitivi, in cui è prevalsa la seconda opzione, con un record di velocità nella prima ora: media 52,100. Per forza: tracciato in discesa. Tra Levico Terme e lo svincolo di Grigne, lungo la strada della Valsugana si consolida un gruppotto di ventisei corridori che tra scaramucce e allunghi prosegue sino al temuto Ca’ del Poggio, un “dente” infingardo che in mille e 300 metri offre pendenze micidiali, sino al 19 per cento, con una media del 15. È il biglietto da visita della Marca Trevigiana, dove è approdato il Giro d’Italia. Il Nord Est è in fibrillazione elettorale per i capovolgimenti municipali causati dallo tsunami Renzi, la vera maglia rosa d’Italia. Toni Da Re, sindaco leghista uscente di Vittorio Veneto (con papà partigiano), costretto al ballottaggio, è un ex ciclista: da dilettante entrò a far parte della nazionale azzurra.

Parentesi. Nella città del Bollettino della Vittoria, i corridori sono approdati otto volte. Questa è la nona, la prima fu nel 1937, il 25 maggio. Il giorno dopo il Giro cominciò a percorrere le Dolomiti, esordio con passaggi sul Rolle e il passo di Costalunga e arrivo a Merano. Trionfò Gino Bartali. Non ho visto né sentito qualcuno ricordarlo… L’Unione Ciclistica Vittorio Veneto è tra le più antiche d’Italia. A cinquecento metri da dove scrivo c’è, sulla collina, il podere di Marzio Bruseghin, bravo corridore che amava gli asinelli (e ne ha qualcuno): fu terzo al Giro del 2008, era forte a cronometro e soprattutto era un signor luogotenente, nelle tappe. Renato Longo, cinque titoli iridati di ciclocross, è vittoriese. Qui addirittura si concluse il Giro del 1988, e fu festa popolare, ciclismo e memoria storica, giacché ricorreva il settantesimo anniversario della disfatta austro-ungarica.

Torniamo alla tappa corsa. A venti chilometri dall’arrivo, il muro di Ca’ del Poggio vede scollinare il belga Thomas De Gendt che è un tipo tosto. A cinque secondi lo insegue un focoso Stefano Pirazzi, a sedici Oscar Gatto. Pirazzi raggiunge De Gendt, su loro due si portano Matteo Montaguti, l’australiano Jay McCarthy e un altro belga, l’insidioso Tim Wellens. I belgi bisticciano. L’australiano traccheggia. Montaguti non sa che fare. Si avvicina il traguardo. A 1300 metri scatta come una furia Stefano Pirazzi che guadagna subito cinquanta, cento metri. Dietro i quattro si guatano in cagnesco. Pirazzi insiste, non desiste. Quando finalmente Wellens, il più veloce del gruppetto, rompe gli indugi, è troppo tardi. Pirazzi è sempre in testa, solo, all’ultima curva secca. Si volta, un’occhiata di lato sopra la spalla destra. Si liscia la maglia alza le braccia, vince. Taglia il traguardo di Vittorio Veneto e fa un gestaccio: quello dell’ombrello. Ce l’ha con tutti coloro che l’hanno sempre deriso: “Sono stato molto sfortunato nella mia carriera, e mi hanno criticato tutti”. Uno sfogo di cui non si pente. Gli costerà 200 franchi svizzeri di multa “per comportamento scorretto in pubblico”. Continua a ripetere che anche in questo Giro, al quinto anno da professionista e con zero successi, “ero andato in depressione”. E tuttavia, racconta con rabbia, “sentivo la gamba crescere”, che nel gergo dei pedalatori vuol dire che sentiva migliorare la forma. Per di più, nella sua squadra di guastatori avevano già vinto Enrico Battaglin e Marco Canola. I tifosi del ciclista di Fiuggi lo seguono con stoica fiducia dall’inizio di questo Giro, al grido: “Tutti pazzi per Pirazzi”. Il problema è che quando perde, le rime diventano più trucide…

Veniamo all’altra tappa. Quella delle polemiche, dopo il colpo da matador dell’astuto Nairo Quintana. Il direttore sportivo di Rigoberto Uran Uran, Davide Bramati, ha cercato di cooptare gli altri colleghi per perorare la causa della sua ex maglia rosa. A suo parere scippata da un’azione poco leale del campione colombiano: “La giuria dovrebbe togliere almeno 55 secondi, al tempo di Quintana. Quello che lui ha guadagnato sfruttando la situazione che si era venuta a creare per le condizioni del tempo al passo dello Stelvio”. La discesa controllata dalle moto dell’organizzazione che invece è diventata il piede di porco di Quintana.

Eccovi il testo del comunicato che i direttori sportivi affiliati all’associazione internazionale hanno elaborato. La montagna, è proprio il caso di dirlo, ha partorito un topolino: “Dopo la riunione di questa mattina a Sarnonico, una delegazione dell’Aigcp ha incontrato gli organizzatori di Rcs e i commissari dell’Uci. A nome di tutte le squadre, la Aigcp ha specificatamente richiesto una neutralizzazione del vantaggio guadagnato da Nairo Quintana lungo la discesa dello Stelvio. L’Uci ha respinto questa richiesta e ha dichiarato che i risultati rimarranno invariati. Per rispetto dei tifosi e del mondo del ciclismo, le squadre hanno deciso di disputare comunque la tappa odierna”.

“Nelle corse – prosegue il testo – le squadre dipendono dalle informazioni fornite da ‘Radiocorsa‘: in condizioni difficili come quelle di ieri, questo flusso di informazioni diventa ancora più importante. Pertanto l’informazione deve essere coerente, chiara e non dovrebbe lasciare adito ad alcun dubbio. Ieri, nel momento di maggiore difficoltà, la qualità delle informazioni è scesa sotto il livello minimo. Dopo l’annuncio tanto discusso, sia l’organizzatore che i commissari non hanno corretto la situazione, sebbene ci fosse ancora tempo per farlo. A precisa domanda della Aigcp, i commissari Uci hanno espressamente negato di aver sentito le istruzioni di “non attaccare nella discesa” trasmesse da Radiocorsa. Per interpretare al meglio il ciclismo, le squadre hanno bisogno che siano applicate le regole in modo coerente ed equo. L’incapacità di regolare adeguatamente la corsa e di correggere gli errori commessi, porta ad avere condizionamenti sul risultato della corsa, cosa che non dovrebbe mai avvenire. La Aigcp è pronta a discutere con tutte le parti interessate al fine di eliminare definitivamente questi problemi di regolamento”.

Morale della favola: nulla di fatto. Protesta senza conseguenze per Quintana. Il quale replica: “Stanno montando una storia non reale. Trovo ingiuste queste accuse. Io ho guadagnato il mio vantaggio in salita”. Fabio Aru non lo condanna, ma ricorda che dalle ammiraglie era arrivato il consiglio di fermarsi e di cambiarsi, “perché lo si poteva fare con tranquillità”. Malintesi o no, bisognerebbe neutralizzare l’organizzazione. Occhiuta nei confronti dei giornalisti ficcanaso, capace però di questo pastrocchio. Quanto a Nairo, la ragione che conta è quella delle strade. Delle gambe. Della forma. Del talento. Domani, infatti, comincia il trittico infernale delle arrampicate: prima la Valsugana, poi la cronoscalata di Crespano del Grappa, infine morituri te salutant Zoncolan sabato pomeriggio. Tutto il terreno che si vuole per attaccare Quintana. Ai tempi di Bartali e Coppi i tifosi delle due ruote si erano abituati a rimonte epocali. Era un altro ciclismo. Un altro mondo.

In realtà è probabile che Quintana decida di “punire” chi gli ha dato del furbo e del bugiardo. Col solo modo che i campioni del ciclismo hanno: vincendo. Dominando. Umiliando, se si è arrabbiati e la si vuol far pagare. Chi saranno i suoi alleati, lo scopriremo in cima al Rifugio Panarotta, dove giovedì arriva la diciottesima tappa. Perché Quintana è forte, ma non come l’anno scorso. E poi, sui monti tuona e lampeggia. Fa freddo di nuovo. E qui a Vittorio Veneto, diluvia. Per la geometrica densità dell’intreccio, ci aspettano tre giorni di lotta dura senza paura: la lotta, cioè, della sopravvivenza ciclistica. Chi vince e convince, trova sempre squadra. Motivazione in più, in un ambiente sempre più precario, economicamente parlando.

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