Qui a Melbourne lavoro per una delle maggiori organizzazioni no-profit della regione del Victoria, 2.500 dipendenti e servizi di ogni genere rivolti alle persone disabili. Molto simile al mio ultimo datore di lavoro italiano, stessa dimensione, stesso campo di intervento e stesse problematiche (regolarità del finanziamento pubblico, governance, sviluppo e valorizzazione delle risorse umane). Sotto un aspetto, tuttavia, le due organizzazioni differiscono enormemente: la capacità di attrarre professionisti dal settore privato che possano portare esperienza, know-how, nuove idee ed efficienti meccanismi di gestione ad un settore – quello no profit – che è sovente ancorato ad un approccio tradizionale e conservatore. In Italia combattevamo per attrarre talenti dal settore privato, con poco successo per la verità; qui invece l’osmosi è assai frequente e nella carriera di un professionista il passaggio al no profit è considerata una tappa quasi naturale.

Tra le varie ragioni che hanno originato questo fenomeno, ve n’è una assai facilmente replicabile. Anche in Australia, come in Italia, i salari no profit sono meno attraenti di quelli del settore privato: per bilanciare tale disparità il paese ha messo in atto un sistema alquanto semplice che permette ai lavoratori no profit di avere dei benefici fiscali contribuendo, al medesimo tempo, allo stimolo dei consumi. Si tratta del salary packaging. Vi faccio il mio esempio: 23% del mio salario mi viene pagato, attraverso questo sistema, da una società specializzata che ha un contratto di servizio con il mio datore di lavoro. Tale parte del mio stipendio non è soggetta a tassazione e quindi mi permette di portare a casa una maggiore somma netta, a patto che io spenda questi soldi in consumi. Ovverossia, se il mio 23% lo deposito in banca e non lo utilizzo, ritorna tassabile: se invece lo uso per pagare affitto di casa, spesa al supermercato, servizi per i bambini, benzina per l’auto, pasti fuori e persino le vacanze, allora rimane non tassato.

Generalmente, associata al servizio vi è la possibilità di avere una carta di credito su cui viene caricato l’ammontare esentasse ed il titolare della carta ha un periodo di tempo definito per spendere tale ammontare. Converrete che spendere il 23% del proprio salario tra affitto, spesa ordinaria, vacanze, benzina etc.. non è impresa impossibile, tutt’altro. E quindi il vantaggio è immediato ed evidente.

Trattasi del classico esempio di due piccioni con una fava: permette ai lavoratori no profit di avere dei salari maggiormente competitivi, rendendo il settore più attrattivo anche per professionisti provenienti dal settore privato, ed allo stesso tempo stimola i consumi, garantendo che tali soldi vengano rimessi in circolo in maniera rapida.

Mi piacerebbe che i tanti rappresentanti del no-profit che si sono dati alla carriera politica e siedono oggi in Parlamento ragionassero su quest’idea, che nella sua semplicità è a mio parere geniale e di facile attuazione. Sarebbe un bel passo in avanti rispetto allo sterile dibattito, che sentiamo da ormai trent’anni, sulla scarsa capacità del no profit di attirare alte professionalità a causa degli stipendi (spesso) da fame pagati. 

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