Il Partito Democratico guidato dal suo nuovo e giovane leader ha vinto le elezioni di larga misura. I vecchi residui centristi sono scomparsi. La compagine politica costruita venti anni fa da Silvio Berlusconi è ai minimi storici. L’avanzata dei populisti euroscettici è stata arrestata. E forse ora si ritirerà sempre di più, come l’onda che si getta verso la riva, la lambisce, e poi viene risucchiata dal mare. Se si trattasse di elezioni nazionali potremmo fermare qui la nostra analisi. I numeri parlano così chiaro che ogni ulteriore esercizio speculativo sulla loro interpretazione sarebbe superfluo. L’unica cosa che potremmo fare è ragionare sulle cause che li hanno determinati.

Quelle che si sono tenute domenica sono però elezioni europee. E discutere dei dati nazionali senza inserirli in un contesto europeo non ha senso. Infatti, mentre gli elettori italiani hanno disegnato uno scenario politico che era inimmaginabile perfino nei sogni dei più strenui difensori dello status quo europeo, fuori dai confini nazionali l’effetto del voto di domenica scorsa è stato devastante.

In Francia e in Gran Bretagna i partiti di governo hanno subito una sconfitta umiliante. Il Partito Socialista del Presidente Hollande ha ottenuto un misero terzo posto, scendendo sotto la soglia del 15 per cento, il peggior risultato di sempre. Lo stesso Hollande soltanto due anni fa, al secondo turno delle presidenziali, aveva conquistato i consensi di oltre la metà della popolazione francese tratteggiando il sogno di una nuova Europa fondata su principi di giustizia sociale. Ora invece l’estrema destra di Marine Le Pen controlla la maggioranza relativa dell’elettorato.

In Gran Bretagna il Partito Conservatore del Premier Cameron è stato sorpassato a destra dall’euroscettico Farage. Un europarlamentare che prendeva la parola nell’assemblea di Bruxelles per far notare al Presidente del Consiglio europeo Van Rompuy che ha il “carisma di uno straccio umido e l’apparenza di un impiegato di banca di basso rango”. Oggi il suo partito è la prima forza politica della Gran Bretagna.

In Grecia la sinistra radicale ha conquistato la maggioranza relativa, e il suo leader Tsipras è fermamente convinto che i trattati europei riguardanti la stabilità economica e il contenimento del deficit pubblico vadano rinegoziati. Alba Dorata si attesta intorno al 10 per cento. La Danimarca fino a qualche anno fa era considerata il piccolo Eden della socialdemocrazia, un caso esemplare nei manuali di politica comparata. Da lunedì mattina il primo partito danese è una formazione xenofoba ed euroscettica di estrema destra, il Danish People Party. In Spagna sia i popolari che i socialisti perdono seggi rispetto alle scorse elezioni, gli indignados del gruppo Podemos! fanno il loro ingresso a Bruxelles guidati dal sociologo Pablo Iglesias, e il leader del Partito Socialista, Rubalcaba, annuncia le sue dimissioni. In Olanda il partito euroscettico di Geert Wilders arriva terzo. In Ungheria gli estremisti di destra del partito Jobbik diventano la seconda forza politica del Paese. E perfino in Germania i neonazisti riescono ad eleggere il loro leader, Udo Voigt.

Gli euroscettici non rappresenteranno la maggioranza nel prossimo Parlamento. Se Junker non dovesse riuscire a farsi nominare presidente della Commissione, popolari e socialisti creeranno forse un governo europeo di larghe intese. Eppure è innegabile che il trend sia allarmante. La prolungata crisi economica e l’incapacità delle istituzioni europee di affrontarla con politiche anticicliche hanno fortemente polarizzato lo scenario politico europeo. Destra e sinistra, popolari e socialisti, sono categorie che in questo momento sono finite in secondo piano. Ciò che sembra prevalere è lo scontro tra europeisti e “antagonisti”. Questi ultimi sono in grado di raccogliere consensi trasversali, indipendentemente dalla loro specifica collocazione politica. L’elettorato è incredibilmente fluido, oscilla tra i due poli, muovendosi con grande disinvoltura tra le offerte politiche nazionali.

La Francia è il grande esempio. I cittadini francesi lanciano da almeno due anni segnali di insofferenza verso l’Europa. Nel 2012 Hollande era riuscito a proporsi come antagonista rispetto a Bruxelles, aveva duramente criticato l’asse Merkel-Sarkozy e aveva fatto presagire un cambio di direzione. A distanza di due anni Hollande è percepito come parte delle strutture politiche che aveva promesso di riformare. E il voto della maggioranza relativa dei francesi si è spostato da sinistra verso l’estrema destra. Probabilmente senza ragioni politiche così ben delineate, se non con l’intento di protestare, e di affidare il proprio consenso a chi si pone come argine rispetto alle politiche neoliberiste che hanno finora caratterizzato l’approccio europeo alla crisi economica.

La situazione è molto delicata. Questa polarizzazione tra europeisti e antagonisti ha fortemente modificato i singoli sistemi politici nazionali, determinando la crescita innaturale di compagini elettorali estremiste che fino a qualche anno fa faticavano ad ottenere la minima rappresentanza interna, o addirittura non esistevano. L’Europa ha un solo modo per limitare il dilagare di queste forze centrifughe. Riformarsi. Il problema è che è chiamata a farlo in un momento in cui il Parlamento europeo è in forte difficoltà in quanto a numeri e credibilità.

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