Per lui è “uno sgangheratissimo varietà post televisivo”, a me è sembrato uno spettacolo intelligente e divertente, che guarda con ironia al linguaggio della tv e ne racconta stereotipi e codici espressivi, mostrandone l’estrema povertà.  Difficile descrivere con parole precise Telemomò on stage, che ha debuttato venerdì 23 al Teatro di Villa Torlonia di Roma dove rimane fino a domenica 25 maggio. Nella bellissima cornice ottocentesca dello spazio appena restituito al pubblico romano, Andrea Cosentino porta uno spettacolo-laboratorio (ma anche una prova aperta) che si muove tra il cabaret e la commedia dell’arte, il teatro delle marionette e la parodia. L’effetto sgangherato è la cifra stilistica di una drammaturgia che punta sull’immediatezza e che fa dell’improvvisazione uno dei suoi elementi centrali.

E sgangherato è forse anche lo stesso autore-attore, che sembra sempre in ritardo su un ipotetico copione, e che fruga nella valigia dei suoi strumenti alla ricerca di oggetti che faticano a comparire. Questo crea anche un forte scollamento tra quello che si vede sul palcoscenico e la scenografia naturale di un teatro storico di altissimo impatto artistico. Cosentino del resto, nel bel documentario che gli ha dedicato Graziano Graziani per Rai5 (in un ciclo di 4 puntate sulla nuova drammaturgia romana), dice di amare un teatro “che puoi fare in qualunque luogo del mondo”, che adotti dei codici “che ti consentano di uscire dal teatro […] senza bisogno di un luogo deputato alla rappresentazione”.

Quello scelto da Telemomò è il non luogo della televisione, presente sulla scena nella doppia versione di un maxischermo che proietta immagini girate durante i laboratori-residenza artistica nel quartiere Nomentano, coinvolto attivamente in un teatro di strada. C’è poi la cornice di un vecchio apparecchio, dentro al quale si muovono i personaggi più diversi: dalle attrici delle fiction, che “tribolano”, ai mezzi busti del telegiornale, fino alla tv dei bambini e al reality show in diretta dalla casa dei sette nani. Rievocando scene dei suoi precedenti spettacoli (soprattutto Angelica), Cosentino costruisce questo Telemomò, che gioca sull’accostamento di macchiette, musica (di Økapi), danza (la geometrica interpretazione di Natalia Bonanese) e video (di Tommaso Abatescianni). Le immagini girate con anziani, bambini e pazienti psichiatrici – con un’aperta citazione dei Comizi d’amore pasoliniani – vogliono ritrarre una società che crede nella televisione come specchio del reale. E da qui parte il gioco di smontamento e ricostruzione, con una continua infrazione degli spazi: in primis quello teatrale, da cui Cosentino esce e rientra grazie alla sua valigia degli strumenti. In questa “drammaturgia sul niente” come la definisce lui, l’attore tira fuori momenti esilaranti, come la marionetta di papa Wojtila o l’Amleto in lituano senza sottotitoli. Non si racconta nessuna storia, non c’è la pretesa di proporre interpretazioni, né analisi sociologiche. Telemomò è una “festa”, in cui il pubblico è coinvolto e si diverte. 

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