Leggo sul web: “Disponibile in varie versioni, tra cui una numerata e firmata da tutti e quattro i componenti della band (3138 copie già sold-out), è uscito il 15 aprile su Touch & Go il box set di Spiderland degli Slint, l’album capolavoro del post-rock.

Il box set comprende: la versione rimasterizzata dei tape originali di Bob Weston in vinile a 180 grammi, 14 outtakes e demo inediti selezionati personalmente dagli Slint, masterizzati da Bob Weston e stampati su due vinili a 180 grammi, un libretto di 104 pagine con foto inedite e i testi, la versione rimasterizzata di Spiderland in cd e le 14 bonus song in un secondo cd, un documentario in dvd diretto da Lance Bangs, il packaging curato da Jeremy deVine e una ristampa serigrafica della t-shirt originale del tour del 1989”. E sempre sul web spulcio le recensioni: su Metacritic.com, forse il sito mondiale più affidabile per misurare la temperatura artistica di un disco, dato che incrocia una gran mole di fonti critiche, gli danno addirittura 99 (su 100) a questo box set, come voto medio. Un trionfo plebiscitario senza precedenti. Un trionfo che non mi stupisce.

1991. Spiderland. Ancora non arrivava la tempesta di Tangentopoli, e Baggio danzava e  darviscio-roteava  sui campi da calcio, nel pieno della sua compianta magia meta-sportiva. Spiderland. Le cassandre e gli oracoli a progetto predicavano la fine di ogni dogma e certezza, e tra queste la scomparsa del rock. Ma poi arrivarono loro. Quattro ragazzi americani col cuore in cerebrali fiamme. Gli Slint. Che incisero Spiderland. Il loro secondo e ultimo album. Il loro unico disco vero e proprio. Il loro disco perfetto.

Solo sei canzoni. Parlate, sussurrate, narcotiche, cosmogoniche, lunari, drammatiche, spettrali, fatali, iperuraniche, ferite, splendide, lacerate e laceranti, disperate e  gridate. Spiderland con questo senso di tensione musicale immanente, cupe vampe di Stratocaster che bruciano Primavere d’inverno.  Sempre sul punto di deflagrare in fuochi d’artificio di dolcezza. Bellezza imprendibile e inesorabile evanescenza. Bastò tanto a salvare il rock, che si fece post-rock. Correva l’anno 1991.

Spiderland. Rock concepito ed esperito per tutte le fredde menti bollenti della nuova era. Lì proprio sul ciglio del cambiamento, dell’azione, della rivoluzione. Gli anni novanta venivano dopo i favolosi Sessanta, i gloriosi e miserabili Settanta, i narcisistici ed edonistici e solipsistici Ottanta. Che fare? Tornare al sociale, occupando l’occupabile e preparandosi a fronteggiare l’imminente globalizzazione? Diventare leggenda mainstream, vendendo decine di milioni di album, e poi sparire letteralmente, fisicamente, alla Kurt Cobain; o sparire astrattamente, ma non fisicamente, per poi divenire leggenda alternativa e underground come fecero gli Slint?

Spiderland. Suono dilatato e contratto, nervoso e letargico, straziato e romantico, languido ed elettrico. Dove mai l’avevano trafugata, questa band, la pietra filosofale? Gli Slint, condannati a essere sempre fuori sincrono rispetto al proprio tempo. Pochi, lì per lì, li capirono. Gli Slint, come i Velvet Underground.

Ricordo come un’estasi al di là del bene e del male quella volta che li sentii in concerto nove anni fa, a Bologna. Era la loro unica tappa europea. Si riformavano dopo undici anni. Anche in quel caso riproponevano il loro unico disco, unico perché definitivo: Spiderland. E no che non delusero le enormi aspettative. Non potevano deludere. Anzi, il loro mito ne uscì ulteriormente rinforzato. Si fecero attendere a lungo. A mezzanotte, sulle ali di “Breadcrumb trail”, si manifestarono. Di nuovo miracolosamente in mezzo a noi. Il chitarrista Brian McMahan, il batterista Britt Walford, il chitarrista e vocalist David Pajo, il bassista Todd Brashear. Sfilarono, uno dopo l’altro, dilatati e totali, i sei capitoli di Spiderland. “Nosferatu Man”. “Don Aman”. “For dinner”. “Washer”. “Good morning, captain”. Dopo un’ora e un quarto di indicibile poesia, gli Slint, immobili come statue classiche, illuminati da una penombra che sapeva di eterno, decretarono la loro ultima nota.

Non concessero un arrendevole bis.

Goodnight, my love. Goodnight, my love. Goodnight, my love.

“Ci rivedremo e saremo sempre giovani e salvi” ci dissero in silenzio gli Slint.

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