Fine della favola. Sognatevele, le volate straordinarie di Marcel Kittel, il tedesco che ha dominato i primi due sprint del Giro d’Italia in trasferta irlandese. Tanto straordinarie. Direi stupefacenti: e non siate maliziosi nel disossare l’aggettivo. L’ho coniato in anni più che sospetti, quando le prestazioni dei corridori erano circondate da dubbi e punti interrogativi. Ops! Ma non fu proprio Kittel quel ciclista coinvolto in una vicenda di emotrasfusioni, un paio di anni fa? Certo che sì: si era sottoposto a trattamenti ematici nel 2012 che oggi il regolamento antidoping vieta, mentre allora la sulfurea procedura non era ancora stata formalmente interdetta dal regolamento. Così, con un opportuno – ed eticamente ipocrita – ricorso al Tas, il tribunale sportivo, era riuscito a scamparla… Insomma, col ritorno sul suolo patrio in quel di Puglia del Giro 2014 ci si aspettava uno scontato tris del tedesco lesto, visto che il traguardo era posto alla fine della tappa più breve e facile (appena 112 chilometri). Invece il nostro eroe dal bruciante finish ha salutato la compagnia, ha mollato la maglia rossa e la gloria. Si è cioè ritirato. Lo ha annunciato su Twitter. Un messaggio accorato, forse un po’ troppo: “Devo abbandonare il Giro prima del previsto, sono molto dispiaciuto di dover lasciare questa bellissima corsa per colpa della febbre. Grazie a tutti, in particolare alla mia squadra, agli organizzatori e ai fan a bordo strada per il grande supporto. Il mio Giro è stato breve ma intenso”. Sarà. Ho ammirato a bocca aperta le sue performances, ieri sera a Firenze, con Franco Bitossi e Roberto Poggiali, abbiamo commentato le sue rimonte impossibili. E tuttavia, preferisco lo stoico Giampaolo Caruso che è rimasto nel gruppo, nonostante una dolorosa fratturina allo scafoide sinistro rimediata nella seconda tappa, “voglio aiutare il mio capitano Rodriguez”, ha detto il corridore, onorando la professione di ciclista e dimostrando ben altra tempra.

Qual è la colpa dell’addio di Kittel? Un improvviso attacco di febbre. Fulminea come i suoi colpi di reni. I compagni di Kittel hanno detto che Marcel era da qualche giorno che non stava bene. Ah sì? Non stava bene, però abbastanza per consentirgli delle prestazioni incredibili, squassanti. Maturate sotto la pioggia fredda d’Irlanda, al termine di tappe piuttosto impegnative, mica il brodino della Giovinazzo-Bari (con un circuito conclusivo da percorrere otto volte) che è stata bagnata da un po’ di pioggerella ostile. I corridori hanno inscenato una protesta baccagliando con gli organizzatori, pretendendo l’eliminazione degli abbuoni e la neutralizzazione dell’ultimo round. Richieste accolte. Li intimoriva il fondo viscido e la paura di nuove cadute. A ragione: nel finale, quattro corridori della Shimano – gli orfanelli di Kittel – sono scivolati a tre chilometri dall’arrivo sulla strada saponetta. Altri poco più avanti: era difficile stare in piedi, si sono lagnati i corridori, “non volevamo rischiare per una tappa”. In testa sono rimasti sei superstiti (e ben tre della Shimano). La pericolosità del circuito è stata confermata dai timori dei corridori. Curve condotte a guardinga velocità. Media soporifera. Spettacolo solo negli ultimi sette chilometri. Negli ultimi cento metri, possente rimonta del franco-algerino Nacer Bouhanni, che aveva evitato acrobaticamente la caduta nel finale e vince, lasciando ancora a secco gli italiani. Sinora, torpore e pioggia. Più che Giro d’Italia, Ghiro d’Italia.

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