“Io lo so dal primo tocco se quel giorno il pallone in campo mi è amico o no. Se lo è, so che posso fare qualunque cosa, rischiare qualunque tipo di giocata. In caso contrario posso anche chiedere il cambio dopo dieci minuti”. Ora si dà il caso che Juan Sebastian Veron e il pallone non litigassero quasi mai. E in anni di tifo, per non dire militanza, ad personam non ho mai visto la sua pelata uscire sdegnata dal campo per uno stop fallito.

E’ avvenuto nel giorno in cui Javier Zanetti ha salutato San Siro: la Brujita si è congedato per sempre dal pubblico di La Plata, ora un’ultima partita, forse l’ultimo trofeo al cielo e Veron sarà un meraviglioso ex giocatore di pallone.

Corre l’anno 1996 quando il figlio di Juan Ramon Veron, la Strega, copre contromano il percorso di Baglietto, Scarpatti, Sana e dei due Farenga. Dal Boca Juniors va nella terra dei fondatori Xeneizes per vestire la maglia della Sampdoria. A 21 anni ha già esordito con la nazionale argentina, il capello rasato a cui abbinare un pizzetto, Ernesto Guevara su un braccio. A Genova fa due anni, poi uno a Parma e vince la Coppa Uefa. Le partite italiana paiono un concerto dei Pet Shop Boys, ma al posto di Go West risuona nell’arena Veron, Juan Sebastian Gol.

Fa spavento. La mette sul piede dell’attaccante a cinquanta metri di distanza, dà ritmo a tutti i compagni e poi corre per novanta minuti avanti e indietro mentre picchia con foga argentina. I suoi gol non hanno senso: il destro parte dritto e arriva dritto senza che il portiere si muova, né la lancetta più lunga del tuo orologio. Tira a giro, irride in pallonetto, smonta la porta con una punizione o va in rete diretto da calcio d’angolo. Fa due anni alla Lazio, tra il 1999 e il 2001 e vince il campionato in quella squadra irripetibile dopata dai soldi di Cragnotti.

Poi lascia l’Italia per Manchester, nello United che suo padre aveva battuto all’Old Trafford con un gol nella finale di Coppa Intercontinentale 68. Dopo una parentesi al Chelsea, Veron si trasferisce all’Inter. Ora ha alti e bassi, ma è sempre deciso e decisivo.

Nel 2006, a 31 anni, lascia l’Europa e torna alle radici. Il presunto tramonto della sua carriera significa cinque stagioni abbondanti nell’Estudiantes di La Plata. In patria continua a insegnare a tutti quanti, riporta i Pinchas sul tetto d’Argentina (2006, con Simeone in panchina) e del continente con la Libertadores 2009. Tre anni dopo si ritira, indossa la divisa da dirigente e la maglietta di una squadra dilettantistica. Ma è ancora troppo più forte e deve ritornare in campo, fino a domenica, ultimo atto di un giocatore unico.

Poche storie come quella di Veron incarnano l’anima del calcio argentino. Un futbol che vive di passione e eccessi, sentimenti e talento.

Queste sono anche le ultime ore da giocatore del Boca Juniors per Juan Roman Riquelme, mentre i tifosi occupano le piazze per chiedergli di ripensarci. Tredici anni in maglia gialloblu hanno lasciato il segno soprattutto quando possiedi i piedi di un mago e la personalità (e la spregiudicatezza) di un rivoluzionario.

Non lontano si ritira anche Alvaro Recoba. Una parabola del tutto diversa quella dell’ex pupillo di Moratti, ma altrettanto mitologica. Ora per lui c’è la politica: è candidato alle ultime elezioni, ma dice di non saperne nulla.

Ps: Permettetemi di non dire nulla sull’addio al calcio di Javier Zanetti. Ritengo che le belle parole di migliaia di non tifosi interisti rendano perfettamente le dimensioni e l’irripetibilità del personaggio. E poi, mi scuserete, certi sentimenti riguardano la sfera del privato.

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