“Partire dai ragazzi e dalla scuola” è il leitmotiv che viene fuori dai numerosi incontri in cui, in questi anni, mi sono ritrovato a parlare di violenza e questioni di genere, incontri pubblici, ma anche privati, con uomini e donne sensibili al tema.

E’ interessante soffermarsi, qualche rigo, sull’origine della parola scuola. Essa nasce dal latino schola, a sua volta derivante dal greco antico σχολεον (scholeion) e σχολή (scholè). Il termine greco significava inizialmente “tempo libero”, solo successivamente è passato a descrivere il “luogo in cui veniva speso il tempo libero”, cioè il posto in cui si tenevano discussioni filosofiche o scientifiche durante il tempo libero, per poi descrivere il “luogo di lettura”, fino a farlo coincidere con il luogo d’istruzione per eccellenza. La scuola quindi non è intesa, inizialmente, come il punto di riferimento per la formazione del sapere, ma come quello dove si impara a conoscersi, quando tutte le altre attività non sono da svolgere, allora si trova tempo per sé stessi e quel che più piace.

Il sapere, il sapere essere ed il saper fare sono le tre dimensioni che ogni allievo dovrebbe imparare a padroneggiare, anche se, troppo spesso, nei contesti scolastici,c’è un evidente sbilanciamento a favore del sapere. Se la scuola diventa maggiormente in grado di dare possibilità di crescita non solo al sapere, ma anche al saper essere, il saper fare ne sarà una diretta conseguenza.

Esistono due realtà  tra le quali l’istituzione scolastica diventa inevitabilmente ponte: la famiglia ed il contesto sociale allargato.

La famiglia, in teoria, dovrebbe costituire il luogo dell’intimità per eccellenza, nel quale, dopo la nascita, si muovono i primi passi sotto la certa protezione dei propri genitori. Nessun contesto dovrebbe risultare maggiormente deputato all’espressione libera del proprio sé in sicurezza, eppure, in pratica, si sa quanto difficile sia il mestiere di genitori e, nella nostra esperienza di bambini e adolescenti, possiamo probabilmente ricordare di non essere sempre stati riconosciuti per quel che realmente provavamo, dovendolo modificare per non sentire a rischio l’affetto dei nostri cari. Quel che si prova non è mai buono o cattivo, lo si prova, la differenza la fa il gestirlo in modo appropriato. Modalità di accudimento tese a negare il vissuto dei bambini o a etichettarlo come cattivo sfornano  adulti nevrotici che faticano a ritrovare il contatto con i propri sentimenti, perché li è stato insegnato che a farlo si viene giudicati negativamente. Senza nulla togliere all’importanza del contesto familiare, anzi sottolineandone l’enorme ed indubbia influenza,  questo può  essere troppo invischiante  per operare delle riflessioni sul genere.

Padre e madre sono il primo esempio, dato ai figli, del proprio e dell’altrui sesso, ognuno dei due trasmetterà la propria idea dell’essere uomo e dell’essere donna e, dando per assodato che la cultura nella quale siamo immersi è ancora fortemente patriarcale, è facile che la famiglia veicoli messaggi coerenti con il modello dominante, consapevolmente o meno.

Il rischio è quindi che la famiglia potrebbe, essa per prima, non riconoscere gli stereotipi di genere, d’altronde gli stessi genitori provengono da una educazione che, ancor meno dell’attuale,si poneva certe domande in merito alle diseguaglianze di genere.

Il contesto sociale allargato invece, costituito da tutto ciò che non rientra nell’ambito familiare e scolastico, è di per sé un terreno di sperimentazione enorme, dove il monitoraggio da parte degli adulti significativi ha molta meno presa ed impatto, data la sua vastità, e gli influenti input esterni proposti (da tv, musica, radio, giornali etc..) possono supportare facilmente  idee sessiste.

L’istituzione scolastica diventa quindi il luogo ideale per fornire modelli alternativi, qui le relazioni sono importanti, ma meno invischianti e libere da condizionamenti e il contesto ha dimensioni gestibili. Gli adulti possono essere autorevoli, se non si mostrano autoritari, e i propri pari sono una palestra sempre pronta all’esercizio delle proprie emozioni.

La scuola dovrebbe farsi garante dell’aiutare i ragazzi a consapevolizzare la propria identità di genere, rispettando e non prevaricando quella altrui. Se è vero che essere maschi o femmine è un dato di fatto incontrovertibile e che quindi sia ipotizzabile che non sia un qualcosa sottoponibile ad insegnamento, è anche un dato di fatto che, finora, donne e uomini non hanno avuto, nel corso della storia, la stessa libertà di espressione, di conseguenza qualcosa non ha funzionato e ne paghiamo tutti un prezzo, catene ben visibili per le prime ed altre meno visibili per i secondi.

Per fermare la violenza e per rapporti più sani ed equilibrati tra i generi o partiamo dalla scuola o perdiamo una grande occasione di cambiamento sociale e culturale, perché possiamo legiferare quanto ci pare, ma, se non tocchiamo profondamente le coscienze, otterremmo  imposizioni che si sostituiscono ad imposizioni, solo con nomi più raffinati.

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