Il primo atto del Jobs Act di Matteo Renzi è ben avviato: il dl Lavoro è passato alla Camera e attende l’ok del Senato. Il testo firmato dal ministro Poletti va nella direzione in cui tutta l’Ue si è instradata da anni: quella della flessibilità. Le ricerche lo certificano: il mercato del lavoro in Europa prosegue verso una sempre maggiore precarizzazione, con una vera esplosione dei contratti atipici. “Il Jobs Act va nel verso giusto”, plaudiva qualche settimana fa Angela Merkel, cancelliera di quella Germania i cui mini-job rappresentano l’avanguardia della flessibilità a livello europeo. Ma Berlino e Roma sono lontane: a differenza che in Italia, in 26 paesi sui 28 dell’Ue esiste una tutela in più per un precario che si ritrova senza lavoro: se da noi, terminato il periodo in cui si ha diritto alla disoccupazione, il disoccupato non ha altri tipi di paracadute, nel resto d’Europa esistono diverse forme di reddito minimo garantito. Non è detto, poi, che la strada indicata dalla Merkel sia la migliore: in Germania i mini-job hanno avuto effetti positivi sull’occupazione ma non sulla crescita. E, adottato in altri paesi, il modello non ha dato risultati sempre positivi. In Slovenia, addirittura, nel 2011 una legge che introduceva i mini-job alla tedesca è stata respinta da un referendum con l’80% dei voti.

ITALIA, RECORD DI CONTRATTI ATIPICI – In Europa “si è verificata una crescente emersione delle cosiddette ‘forme di lavoro più flessibili’, che si discostano dai contratti di lavoro ‘standard'”, si legge nell’introduzione di “Flexible forms of work: ‘very atypical’ contractual arrangements“, ricerca firmata nel 2010 da Eurofound, agenzia dell’Ue per il lavoro. La motivazione utilizzata dai governi per giustificare le riforme è la possibilità di combattere la crisi creando nuovi posti di lavoro in grado di far da ponte verso occupazioni più stabili o “standard”. Come è messa l’Italia? Ha conosciuto “in 20 anni un’impressionate proliferazione di tipologie contrattuali – si legge in “Accessor”, acronimo di Atypical Contracts and Crossborder European Social Security Obligations and Rigths, studio realizzato nel 2013 dalla Cgil e da altri 5 sindacati europei – a cui è corrisposto un crollo dell’indice di protezione dell’occupazione usato dall’Ocse per i suoi raffronti internazionali”. Le riforme Treu (1997), Biagi (2001) e Fornero (2012) hanno prodotto “una giungla di contratti atipici: 19 per Confindustria, 26 per l’Ufficio studi Consulenti del Lavoro, 46 per la Cgil”. Contro i 9 vigenti in Francia e nel Regno Unito e i 7 di Belgio e Slovenia. Risultato: “Quasi 2 contratti su 3 stipulati negli ultimi anni sono stati per lavori a tempo determinato”.

GERMANIA, “FLESSIBILITA” NON FA SEMPRE RIMA CON “CRESCITA” – Lo scorso 17 marzo Frau Merkel plaudiva alla riforma voluta da Renzi. L’avanguardia tedesca in fatto di flessibilità sono i mini-job. In Germania, dove su 30 milioni di posti di lavoro 9 sono contratti atipici, questo tipo di contratto esordì nel Sozialgesetzbuch (Codice della sicurezza sociale) nel 1971: si tratta di piccoli impieghi esonerati dalla maggior parte degli obblighi contributivi e fiscali, pagati al massimo 450 euro mensili. Ideato per offrire un reddito secondario alle donne sposate e legalizzare i piccoli secondi lavori, il mini-job si è trasformato in un fenomeno di massa: secondo la Federazione tedesca dei sindacati (DGB), oggi i mini-job sono 7,5 milioni, quasi un posto di lavoro su 5, e il 63% sono occupati da donne. Ma non è detto che la flessibilità si traduca sempre in occupazione. Grazie anche a mini-job, la Germania ha un tasso di disoccupazione del 6,9%, tra i più bassi dell’Unione, e gli occupati sono 42 milioni, in aumento da 7 anni a questa parte. A questi numeri, tuttavia, non corrisponde crescita economica: nel 2013 il Pil è aumentato solo dello 0,4 %, sintomo che la creazione di nuovo lavoro non avviene per effetto della crescita, ma in virtù della redistribuzione del lavoro esistente. Non solo: i contratti a tempo pieno vengono sempre più sostituiti da impieghi precari e part-time.

SPAGNA, PIU’ PRECARIETA’ E MENO LAVORO Nella direzione della flessibilità si è lanciata anche la Spagna, ma dopo 2 anni di politiche per le leggi sul lavoro firmate dal governo Rajoy, i risultati sono deludenti. A tratti inquietanti: secondo la Fondazione delle casse di risparmio, se nel 2012 i disoccupati erano 4,5 milioni a febbraio 2014 erano saliti a quota 4.8 milioni, + 4,6% in poco più di un anno. Con gli iscritti alla Previdenza sociale ridotti di oltre 700mila unità. Ovviamente la precarietà è aumentata: secondo l’Encuesta de población activa (Epa), lo studio statistico sul mercato del lavoro elaborato dall’Istituto nazionale spagnolo (Ine), dei 14,7 milioni di contratti stipulati nel 2013, quasi 5,3 milioni erano a ore. Così se nel 2013 si sono persi 669mila posti full time, i mini-job sono aumentati di 137mila unità. 

UE: FLESSIBILITA’ SI’, MA ANCHE REDDITO MINIMO Se la flessibilità, e quindi la precarietà, dilagano, la maggior parte dei paesi Ue si è dotata di forme di reddito minimo, strumento per garantire la sussistenza a chi perde il lavoro. Gli unici due Stati a non averlo fatto sono l’Italia e la Grecia. Nel Regno Unito, ad esempio, dopo la disoccupazione che dura 6 mesi è prevista una forma di tutela in più: l’Income-based Jobseeker Allowance. Basato sulla “prova dei mezzi”, la misura del reddito dei richiedenti, si tratta di uno schema che fornisce aiuto a chi non ha un lavoro full time e vive al di sotto della soglia di povertà. Il sostegno ha durata illimitata finché sussistono le condizioni per averlo e varia in base a età, struttura della famiglia, eventuali disabilità, risorse che i beneficiari hanno a disposizione: chi ha in banca più di 16mila sterline non può accedervi e depositi superiori alle 6mila riducono l’importo del sostegno. Qualche cifra: i single tra i 16 e i 24 anni percepiscono 56,80 pound a settimana, gli over 24 arrivano a 71,70.

GERMANIA, MINI-JOB + REDDITO MINIMO = 850 EURO AL MESE Se è vero che in Germania i mini-job sono lavoretti con cui si guadagna poco e che non danno diritto ad alcuna tutela previdenziale, è vero anche che se ne possono svolgere due contemporaneamente e che il salario di un mini job si può sommare al reddito minimo garantito introdotto nel 2003 con la riforma Hartz IV voluta dalla Spd di Gerhard Schröder. Qualche conto: dal 1° gennaio 2013 un single prende fino a 382 euro al mese di reddito minimo, cui vanno aggiunti i sussidi per affitto (congruo alle condizioni del single, quindi in genere un monolocale e non in una zona di lusso) e riscaldamento per 250-300 euro al mese; a questi è sommabile la paga del mini-job, cui vengono operate delle detrazioni: dei 450 originari ne restano 170. Quindi 380+300+170=850 euro mensili. Che salgono nel caso si tratti di una coppia: 350 euro per il marito, 320 per la moglie, circa 1.000 euro di affitto, cui si aggiunge il salario del mini-job. Hartz IV prevede inoltre indennità integrative per i disabili, i genitori soli e le donne in gravidanza. Lo Stato pensa anche alla prole: 289 euro per ogni figlio tra i 14 e i 18 anni, 255 euro tra i 6 e i 14 anni, 224 euro da 0 a 5 anni. La durata del sussidio è illimitata, a patto che chi è abile al lavoro segua programmi di reinserimento e accetti offerte congrue al suo curriculum. 

SPESA SOCIALE, ITALIA QUINTULTIMA SU 28 Se negli altri paesi la tutela dei disoccupati è considerata una priorità, in Italia non è così. Gli ultimi dati Eurostat, pubblicati nel novembre 2013, sono avvilenti. Al 2011 l’Italia è al 23° posto, insieme all’Estonia, per le spese a sostegno della disoccupazione (2,9%), al 26° per quelle a tutela di malattia e invalidità (30,6%) e ultima per quelle in favore di famiglia e infanzia (4,8%), edilizia sociale e lotta all’esclusione (0,3%). Qualche confronto: la Francia, che ha un tasso di disoccupazione inferiore a quello italiano, spende in proporzione 2,3 volte in più (6,6%); la Germania spende il doppio e ha la metà dei disoccupati (4,6%); la Spagna, che ha il tasso più alto, spende 5 volte di più dell’Italia (14,6%). “Secondo varie stime – si legge ancora in Accessor – le indennità di disoccupazione coprono in Italia meno del 30% dei disoccupati, contro il 36% del Regno Unito, il 50% della Francia, il 70% della Germania, Spagna e Paesi scandinavi, l’80% del Belgio (Fonte Ocse)”. A tenere nella media Ue la spesa complessiva per protezione sociale sono le pensioni di vecchiaia e reversibilità, storicamente le più elevate a livello europeo.

SVEZIA, DOPO 2 ANNI IL TEMPO DETERMINATO DIVENTA INDETERMINATO In Svezia i contratti standard godono di un alto indice di protezione, a differenza di quelli a tempo determinato. Eppure quelli per le sostituzioni temporanee e per i lavori stagionali (allmän visstidsanställning) si trasformano in contratti a tempo indeterminato “se il rapporto dura più di 2 anni in un periodo di 5 anni”. Molto garantiti anche i contratti di prova (Provanställning), “che si trasformano automaticamente in un rapporto a durata indeterminata dopo 6 mesi, ma che lasciano al datore di lavoro la facoltà di interrompere il periodo di prova in qualsiasi momento”. Anche in Svezia, ovviamente, le tutele per chi perde il lavoro si estendono ben oltre la disoccupazione.

SLOVENIA, REFERENDUM BOCCIA IL MINI-JOB TEDESCO In Slovenia esiste qualcosa di simile al mini-lavoro. Sono le prestazioni occasionali e a tempo parziale, con orario non superiore alle 60 ore mensili e reddito fino a 6.300 euro lordi l’anno. Sono esenti dai contributi assicurativi e non danno diritto a prestazioni previdenziali. Pensate per immettere sul mercato disoccupati, pensionati e studenti, queste forme vengono spesso usate per evadere le tasse e per inquadrare lavori che dovrebbero essere standard. Nel 2010 il governo aveva avviato una riforma per estendere questo tipo di contratti sul modello dei mini job in vigore in Germania, ma la popolazione si è opposta: in un referendum del 10 aprile 2011, il provvedimento è stato bocciato con l’80% dei voti. A guidare l’opposizione, i sindacati e le organizzazioni studentesche.

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