Più del 4% dei condannati a morte negli Stati Uniti potrebbe essere innocente e non lo si saprà mai. È il risultato dello studio, inedito nel suo genere, Rate of False Conviction of Criminal Defendants Who Are Sentenced to Death, pubblicato lunedì sulla rivista statunitense “Proceedings of the National Academy of Sciences”. Lo studio è stato condotto da quattro ricercatori, Samuel R. Grossa, Barbara O’Brienb, Chen Huc e Edward H. Kennedy, per metà giuristi e l’altra metà esperti di biostatistica, proprio perché il metodo utilizzato nella ricerca è stato quello statistico “della sopravvivenza” usato dalla medicina classica per verificare l’efficacia di un farmaco.

Lo studio ha analizzato tutte le 7482 condanne a morte emesse dal 1973 – anno in cui la Corte suprema degli Stati Uniti introdusse la nuova legge sulle sentenze di morte – fino al 2004. Di questi condannati il 12,6% sono andati al patibolo, il 4% è morto in carcere, per suicidio o cause naturali, il 46,1% è ancora (al 2004) nel braccio della morte e il 35,8% ha visto commutare la pena in ergastolo o pene minori. Il restante, l’1,6%, corrispondente a 138 condannati, è stato in seguito dichiarato innocente e rilasciato. Ma secondo il professor Samuel Gross della University of Michigan Law School, l’autore principale dello studio, la maggioranza delle persone innocenti che vengono condannate a morte non vengono mai identificate e liberate. Vengono uccise o rimangono in carcere a vita.

Frutto, questo – secondo lo studio – di un sistema giudiziario sbagliato: superficialità delle corti, ricerca frettolosa di un colpevole, troppa rilevanza alle testimonianze e bolle mediatiche che offuscano le indagini. Ma si parla anche di scarsità dei mezzi, intellettuali ed economici, della maggior parte dei condannati – per contrastare le decisioni dei tribunali – che finiscono quindi con l’accettare la loro sentenza di morte come inesorabilmente giusta. A questo si aggiunge il fatto che molte pene capitali vengono commutate in ergastolo senza possibilità di ricorso e finisce, in ogni caso, che il condannato sconta una pena da innocente.

Attraverso calcoli statistici, quindi, i ricercatori hanno concluso che il 4,1% dei condannati a morte verrebbe liberato se potesse permettersi di condurre fino in fondo i propri ricorsi. Quindi uno su 25, in tutto 340. Un numero molto più alto di quello “svelato” qualche mese fa dall’Fbi, che parlava di 27 condanne a morte in Usa viziate da errori.

I giornali americani parlano dello studio come di “un’inchiesta scioccante” che mette in luce il vero volto della pena di morte: decine e decine di persone innocenti che continuano ad essere uccise con un’iniezione letale o sulla sedia elettrica. Ne è un esempio Carlos De Luna, in Texas, che venne condannato a morte per l’omicidio di un benzinaio nel 1989. Lui gridò la sua innocenza fino all’ultimo ma venne comunque giustiziato. Vent’anni dopo un docente della Columbia University scoprì che l’assassino era un altro, che assomigliava molto a De Luna, ma ormai era troppo tardi.

“Fortunatamente – si legge nello studio – il numero di condanne a morte effettivamente eseguite è diminuito negli anni e questo perché domina lo spettro dell’innocente ucciso, ma rimane comunque un fatto quasi peggiore: la pena viene trasformata in ergastolo e l’innocente viene dimenticato in carcere”.

I ricercatori sostengono quindi che se i condannati avessero la possibilità di difendersi con più ricorsi, molti potrebbero uscire di prigione. Indagini più approfondite o tecnologie più avanzate hanno infatti permesso di salvare dal patibolo diversi innocenti. La prova più salvifica ad esempio è stata quella del dna, utilizzata con frequenza solo a partire dagli anni 90, ma solo per i casi di stupro e omicidio, e non per solo omicidio. Se tutti ne potessero usufruire – secondo i ricercatori – altri casi di innocenza verrebbero scoperti. 

 

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