Forse adesso, mentre su Dani Alves si spandono echi kennediani e tutti gli idealisti del pianeta si immedesimano nella sua pernacchia alla Totò come un giorno, in altri palcoscenici, si professarono berlinesi, i soloni si vergogneranno. E cestinando trent’anni di pensosi dibattiti sociologici sul tema del razzismo, rifletteranno sull’uovo di Colombo. Sulla semplicità di un prossimo trentenne di passaporto brasiliano che di fronte agli ululati e alle banane in campo, con la brevità dell’artista improvvisato e il gesto secco dell’attore consumato, sbuccia il frutto, lo inghiotte e torna al suo mestiere. A un calcio d’angolo da battere. Al rassicurante spettacolo che deve continuare senza più interruzioni, proibizionismi o gabbie metaforiche. Lasciando alla nuda evidenza il compito di giudicare. Alle polizie in divisa l’onere dell’espulsione del lanciatore di verdura (da domani, se vorrà, il tifoso del Villareal che ha gettato la banana al “negro” del Barcellona potrà crearsi l’arena nel tinello di casa) e ai fratelli di Dani Alves in mutande, il desiderio di solidarizzare a due passi dal Mondiale. Allo stadio Madrigal, nel solito corollario di vigliacca maleducazione anonima che eccita il branco, Dani Alves si era ritrovato in solitudine a decidere in un istante.

Un minuto dopo, allo stesso ritmo del ripudio in campo aperto, del suo gesto hanno fatto manifesto di patria, Mondiale calcistico e futuro prossimo milioni di persone. Ne hanno cercato la voce, e non solo l’immagine rimasta negli occhi, migliaia di cronisti. Mentre il compagno Neymar metteva in rete autoscatti filiali con banane sbucciate, Dani ha risposto dimenticando il politicamente corretto: “Sono in Spagna da 11 anni, non è cambiato nulla. Non ci rimane che ridere di questi ritardati”. In un salto dialettico più vicino a Massimo Troisi che all’appropriazione indebita che dal Manzanarre al Reno non ha mancato di registrare commenti improntati all’univocità o all’esasperato sciovinismo in stile Cinegiornale di Globoesporte: “Quella banana è il Brasile che viaggia attraverso il tempo e lo spazio. Quell’ironia nel gesto di mangiare il frutto è come un ballerino che balla la samba o un giocatore che dribbla”. Alves è rimasto distante dai proclami dando fondo a un indignato umorismo. L’esempio, certo. In un universo in cui fanno più notizia le brutture, le riflessioni a posteriori di Dani sull’allegria: “Siamo un popolo felice con la samba nei piedi e quel tifoso mi ha aiutato: quando ho cominciato a giocare mio padre mi diceva sempre di mangiare banane per evitare i crampi. Come avrà fatto a indovinare?” restituiscono a meno di due mesi dall’evento brasiliano qualcosa che sembrava essere stato travolto dalle contingenze.

Un’ipotesi, una base, una vera tavola non necessariamente rotonda (ci sono spigoli che picchiano sul raziocinio, sul realismo) su cui provare a ragionare e a ricostruire il senso di uno sport che in quel paese gioca chiunque abbia due gambe. La banana di Alves, per ogni autoctono che ha avuto un nonno in lacrime per la disfatta del Maracanà nel 1950, ha il suono nostalgico di certe pubblicità della Chiquita. Quelle in cui al posto degli insulti e del determinismo, per godere dello spettacolo della natura, si dava spazio alle istruzioni per l’uso: “But, bananas like the climate of the very, very tropical Equator/So you should never put bananas in the refrigerator”. Le banane vengono da un posto caldo e come i pensieri, non si dovrebbero stipare nel congelatore. Alves ha aperto la porta e ha lasciato che il ghiaccio si sciogliesse. Dare forma ai frammenti, ora, toccherà a tutti gli altri.

da Il Fatto Quotidiano, 29 aprile 2014

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