Lisbona. Festival del cinema italiano. Ci vado con i miei figli. Una volta tanto per unire dilettevole a utile. Ammesso, ma ancora penso di sì, che ci sia un’utilità a portare in giro dei film.

In questi giorni, come ogni anno, si sono sparati tanti numeri sul cinema italiano: centosessantasette film prodotti, uno in più dell’anno scorso, ma tanti soldi in meno investiti. Una sessantina di film costati meno di duecentomila euro, il che quasi sempre vuol dire niente finanziamenti statali e niente tv: “miniaturizzazione” del mercato, la definiscono i capi del cinema italiano. Provando quasi fastidio per chi pur di fare, non riuscendo a trovare uno spazio nel nostro sistema, prova legittimamente ad esistere ugualmente. Numeri che inquinano numeri. Abbassando medie. Tanto pare che di questo si viva. E quando sul versante incassi un solo film va oltre i cinquanta milioni, alzando vertiginosamente quella media, i capi gridano alla ennesima rinascita del cinema italiano. Tira un’aria nuova, perché abbiamo vinto l’Oscar e perché vedi anche a Cannes adesso ci rispettano di più. E vanno avanti felici, i capi, cercando di capire come faranno a spartirsi i contributi statali che premiano gli incassi.

E se per questo bisogna ulteriormente abbassare le medie dei finanziamenti che si assegnano per realizzare i film, soprattutto quelli di esordio, facciamo pure. E nessuno dei capi che si ponga il problema che chi oggi vuole cominciare a produrre non trova un euro di credito dalle banche e che il sistema è tale che proprio non si può fare a meno delle banche. La ‘miniaturizzazione’ dà fastidio, a tutti i livelli, dai registi ai produttori: del nuovo, se pensa piccolo, se ne deve fare a meno. E allora io, miniatura vecchia che non si scompone più, porto i miei figli in giro per la città, a vedere l’Oceano, a mangiare le paste con la crema, a vedere chiese, a prendere tram. E poi andiamo allo stadio del Benfica, dove in serata è prevista una partita importante, tanto che quando la visita arriva in prossimità del terreno di gioco ci pregano in tutte le lingue possibili di non calpestare assolutamente l’erba.

Io, per mia tranquillità, ritraduco l’avvertimento ai miei figli, che dicono di avere capito. Foto alle panchine, all’aquila Victoria simbolo del Benfica, ai palloni, ai pannelli pubblicitari. Davide, il mio figlio più piccolo, quello con gli occhi azzurri, quello con la faccia da angioletto, mi guarda. Poi guarda il centro del campo. Poi guarda gli addetti alla manutenzione del terreno di gioco. Poi guarda la guida del Benfica. Poi mi guarda ancora. E va, con i suoi capelli biondi al vento. Verso il centro del campo. Io gli grido tra i denti di tornare indietro, ma in realtà godo della sua corsa di calciatore in miniatura. Fino al centro del campo. Fino all’area di rigore. Fino a quel calcio ad un pallone immaginario. Fino al gol. 

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