Chiamiamoli come vogliamo, ma alla fine sono volti di giovani, competenti, che hanno trascorso parte della loro vita a studiare per acquisire un titolo, lasciati fuori dal mondo del lavoro. Loro amano farsi chiamare “tieffini”, orgogliosi, obtorto collo, di quel Tfa, tirocinio formativo attivo, che è la causa del loro male. Ai genitori dei nostri allievi, a chi è già di ruolo, interessa poco di questa battaglia. Anzi, diciamolo con schiettezza: la guerra tra questi del Tfa e quelli del Pas (percorsi abilitanti speciali) non fa notizia, è roba che riguarda questa generazione di trentenni sfigati.

L’Italia ha ben altri problemi cui pensare.

Forse chi ha inventato questo macchinoso sistema di reclutamento dei docenti e queste assurde selezioni, sapeva che gli acronimi, non avrebbero entusiasmato nessuno.

Aldo, il mio primo caporedattore, al quotidiano La Provincia di Cremona, mi insegnò che “dovevo scrivere in modo che la casalinga di Voghera mi comprendesse”. E allora proviamo a farlo anche stavolta raccontando la storia di Gessica. E’ nata nel 1987, si è laureata nel 2011 in filosofia. Da quel momento è iniziata la sua battaglia e la sua via crucis. Immagino che la maggior parte dei commentatori penserà: “Ah certo, non penserà di entrare nel mondo del lavoro dopo tre anni dalla laurea”. Mi viene una sola risposta: se non ora quando?

Gessica non ha fatto nulla per meritarsi di non avere una cattedra a 30 anni. Anzi. Nel 2012 ha partecipato a una selezione che ha valutato 120 mila aspiranti docenti attraverso tre prove a pagamento: un test a crocette “con imbarazzanti errori nella formulazione”, una prova scritta ed infine una orale. Gessica è entrata a far parte degli “eletti”, di coloro che potevano iniziare il Tfa. Gratis?

No, 2500 euro in media (più libri ed eventuali spese di trasporto o alloggio presso le sedi universitarie) per frequentare lezioni universitarie del proprio ambito disciplinare e di scienze pedagogiche, sostenere esami, lavorare in una scuola affiancando un docente di ruolo e superare la famosa prova abilitante. In undici mila sono stati abilitati. Pronti ad insegnare, ad entrare in aula. Gessica credeva di avercela fatta. Pensava che avrebbe iniziato a fare qualche supplenza entrando a far parte di quella graduatoria che gli addetti ai lavori chiamano seconda fascia, dedicata a quei docenti abilitati con priorità per l’assegnazione delle supplenze. Non è andata così. Per loro non c’era alcun posto nella graduatoria. E pensare che, i loro colleghi meno sfigati, abilitati tramite le SSIS (Scuole di specializzazione per l’insegnamento secondario) erano stati reclutati. I tieffini, no: loro sono figli di un dio minore. Non solo. Cambia il ministro, cambiano le regole.

Con Francesco Profumo sono arrivati i Pas per tentare di risolvere il problema dell’abilitazione di coloro che finora hanno insegnato senza abilitazione. I Pas, aperti a coloro che hanno insegnato almeno tre anni (anche non consecutivi) hanno messo in moto altri corsi, altri soldi. E ora ad attendere una cattedra sono i “tieffini”, i “passini”, i precari abilitati da anni nelle graduatorie ad esaurimento.

Il Ministero sa bene e meglio di noi che con il calo demografico nei prossimi anni è calcolato un calo delle classi e quindi una diminuzione delle cattedre.

Gessica non ama chiamarla una guerra tra poveri. Anzi, via mail, mi ammonisce quando scrivo queste tre parole. Lei, giustamente, ci tiene a rilevare che “loro”, i tieffini, hanno dimostrato qualcosa in più con tre prove selettive: “una distinzione giuridica tra il titolo di abilitazione Tfa e Pas, da concretizzare tramite una cospicua differenza di punteggio”.

Ma oltre a Gessica, ho in mente il volto di Laura, laureata in lettere, già in cattedra da anni, in procinto di essere mamma e costretta ad affittare una casa a Pavia per frequentare il Pas (con tanto di migliaia di euro sborsati). Certo, son percorsi, corsi, acronimi diversi ma le storie di questa generazione non cambiano.

E nemmeno le risposte dei vari ministri all’Istruzione. La Giannini, nelle linee programmatiche presentate alla VII commissione del Senato ha dimostrato di avere chiara la situazione, almeno sul piano dei numeri: 170 mila precari storici, 460 mila iscritti nelle graduatorie d’istituto e utilizzati per le supplenze annuali, oltre 10 mila tieffini, 70 mila che vengono dai Pas. Ma di là delle enunciazioni di rito sulla volontà di predisporre un piano di medio termine per il reintegro dei precari e il loro inserimento in “organici funzionali”, il ministro ha annunciato un nuovo Tfa.

Viene spontanea una domanda: qual è il giro d’affari dietro a Tfa, Pas e Ssis? A chi servono veramente?

Intanto stamattina, i docenti abilitati con Tfa, abbandonati dal sindacato e dalla politica, torneranno a manifestare davanti al Ministero dell’Istruzione a Roma: chiedono il rispetto del regolamento sulle supplenze, il godimento del diritto al doppio canale di reclutamento stabilito dalla legge 124/99. Detto con parole comprensibili anche alla cosiddetta casalinga di Voghera: vogliono insegnare, vogliono una cattedra. Non mi sembra così strano in una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.  

Articolo Precedente

Lavoro, globalizzazione: chi risponde a queste domande?

next
Articolo Successivo

Dl Lavoro, contratti a termine: proroghe ridotte da 8 a 5. Maggioranza divisa

next