Tutto ha un limite. Persino la severità di Berlino e Bruxelles in fatto di bilanci pubblici. Un fiscal compact che davvero contemplasse tagli annuali per decine di miliardi di euro sarebbe la pietra tombale su qualsiasi velleità di ripresa economica della zona euro. In realtà su questo accordo messo in cantiere ai tempi dell’ultimo governo Berlusconi e poi siglato da Mario Monti sono fiorite interpretazioni inesatte che in alcuni casi sono sfociate in ipotesi da far accapponare la pelle. Come quella stando alla quale dovremmo fare 50 miliardi di tagli ogni anno per vent’anni. Una lettura attenta dei documenti suggerisce conclusioni più prudenti: la camicia di forza Ue – o la sana gestione dei conti, a seconda dei punti di vista – potrebbe costarci tra i 5 e i 7 miliardi di euro. Le critiche sull’eccesso di austerità imposto da Bruxelles sono legittime. Il continuo sovrapporsi e avvicendarsi di norme e trattati con dentro regole complesse crea oggettivamente confusione. E’ però sbagliato pensare che il fiscal compact, che sarà applicato dal 2015 e produrrà effetti dal 2016, comporti stravolgimenti. Le nuove regole possono diventare una zavorra, ma non una pietra al collo. Partiamo dall’inizio: giuridicamente il fiscal compact è un trattato internazionale che deve essere espressamente recepito dagli Stati membri. Non si tratta cioè di un atto normativo dell’Unione europea che come tale entra automaticamente (o quasi) nella legislazione nazionale. I contenuti sono in sostanza quelli previsti dal cosiddetto “Six Pack” della Commissione europea (il pacchetto di misure entrato in vigore nel 2011): un sentiero di riduzione del debito pubblico in eccesso e limiti ai deficit tarati sulle specificità dei singoli Paesi, ma un po’ più severi rispetto alla semplice regola del 3 per cento.

La regola del debito – E’ lo spauracchio di molti commentatori, ma si tratta di un vincolo molto più morbido di quanto possa sembrare. E, peraltro, già contemplato da tempo nei trattati europei. I Paesi con un debito che supera il 60% del Pil devono ridurre la parte eccedente di un ventesimo ogni anno fino a riportarlo al di sotto di questa soglia. La regola può effettivamente generare confusione e ha dato origine all’equivoco più grande. Siccome l’Italia ha un debito di 2.107 miliardi di euro, più del 132% del Pil, si è pensato che dovesse ridurlo di circa mille miliardi (la parte eccedente il 60%, appunto) di un ventesimo l’anno: i famigerati 50 miliardi. In realtà la diminuzione che interessa è quella del rapporto tra il debito e il Pil, non del suo valore assoluto. Ossia: se il Pil cresce, il debito può restare comunque oltre i 2.100 miliardi (o persino salire) e in proporzione scendere comunque. Non solo. Il valore del prodotto interno lordo da utilizzare ai fini della regola del fiscal compact non è quello “reale”, di cui si legge abitualmente sui giornali (per esempio: nel 2014 il Pil italiano crescerà dello 0,7%) ma quello nominale, cioè non depurato dagli effetti dell’inflazione. Per esempio, se in un dato anno la crescita economica è pari allo 0,5% e i prezzi aumentano dell’1% il Pil nominale crescerà dell’1,5 per cento. Questo offre margini aggiuntivi per ridurre il quoziente debito/pil senza tagli alla spesa. Ovviamente i margini saranno più ampi in periodo di forte crescita economica e/o alta inflazione, minori se, come accade ora in Italia, la crescita è asfittica e l’inflazione è bassa. Inoltre, spiega Angelo Baglioni, economista dell’università Cattolica di Milano, il ritmo di discesa del debito (il famoso ventesimo, ndr) viene ricalcolato ogni anno sulla base del triennio precedente. Quindi, se il debito inizia a scendere la quota da ridurre si assottiglia via via: se ho un debito di 200 e lo riduco di un ventesimo arrivo a 190, quindi l’anno successivo il ventesimo richiesto non sarà più 10, ma 9,5. Inoltre, essendo calcolata come media annuale del triennio la riduzione può essere nulla se si prevede che l’anno successivo sarà di un decimo.

Per farsi un’idea, si consideri che alcune simulazioni hanno evidenziato come con un debito al 120% del Pil sarebbe sufficiente una crescita nominale (Pil reale + inflazione) del 2,6% per ottenere automaticamente una riduzione del debito pari al ventesimo richiesto dal fiscal compact. Si tenga presente poi che tra il 2000 e il 2007 la crescita nominale italiana è stata in media del 3,6% annuo. Prendiamo per buone le stime dell’Fmi, stando alle quali nel 2015 il Pil reale italiano salirà dell’1,1% e l’inflazione dell’1 per cento. L’incremento del Pil nominale dovrebbe essere quindi del 2,1 per cento. Mancherebbe quindi uno 0,5%-0,7% per ottenere una crescita sufficiente ad abbattere il debito di un ventesimo. Si parla insomma di 7-10 miliardi di euro, ammesso che il gap non venga compensato nei due anni successivi. Fin qui tutto bene, o quasi. Che cosa succederebbe, però, in una situazione come quella del 2013, quando per effetto del calo del Pil reale e della bassa inflazione il Pil nominale è addirittura arretrato? In teoria, ma solo in teoria, una puntuale applicazione della regola comporterebbe effettivamente esborsi nell’ordine di decine di miliardi di euro. Sono tuttavia previste una serie di circostanze attenuanti che sospendono l’applicazione del vincolo in situazioni di particolare difficoltà, precisa Giuseppe Pisauro, economista dell’università La Sapienza. Tra queste tutti i fattori che condizionano il ciclo economico e allontanano l’economia di un paese dal suo potenziale di crescita.

Pareggio strutturale e deficit – Le nuove regole europee in materia di bilanci pubblici ribadiscono il limite del deficit al 3% del Pil ma aggiungono un nuovo parametro. Che è, questo sì, la vera novità del fiscal compact. Si tratta del fatto che il deficit strutturale non deve superare lo 0,5% del Pil (l’1% per i paesi più virtuosi). Il deficit strutturale è quello calcolato tenendo conto degli effetti del ciclo economico: per esempio considera se il calo delle entrate dello Stato o l’aumento della spesa per sussidi di disoccupazione è temporaneo e legato a una fase di crisi. Detto in altri termini, un Paese è in deficit strutturale se le spese sono superiori alle entrate anche ipotizzando che l’economia marci al massimo delle sue potenzialità. Qui però sorgono non pochi problemi: quantificare l’ipotetica crescita potenziale è estremamente complesso e non mancano gli elementi di arbitrarietà. Un recente studio degli economisti Stefano Fantacone, Petya Garalova e Carlo Milani pubblicato su lavoce.info ha messo in luce come in tal senso stiano prevalendo orientamenti piuttosto penalizzanti nei confronti dell’Italia.

Le vere cifre – In condizioni normali (dove per normale si intende una crescita nominale del 2-2,5%) il pareggio strutturale, spiegano fonti dell’Unione europea, è in linea di massima sufficiente per garantire il ritmo di riduzione del debito richiesto dal fiscal compact. La regola sulla riduzione del debito diventerà pienamente operativa dal 2016 e fino a quella data il parametro che viene tenuto sotto sorveglianza è appunto il pareggio strutturale. Su questo fronte potrebbe emergere qualche difficoltà. Dalla Ue non si sbilanciano su quello che ciò potrebbe comportare in tema di aggiustamento dei conti (attraverso tagli o nuove tasse) negli anni a venire. Ricordano però come, rispetto a quanto previsto nell’ultima legge di stabilità, siano ritenuti opportuni interventi aggiuntivi di aggiustamento pari allo 0,4 – 0,5% del Pil, ossia tra i 5 e 7,5 miliardi di euro. Secondo Fedele De Novellis del centro Ref ricerche, le stime del governo sull’evoluzione dei conti pubblici partono da due assunzioni molto favorevoli ma contraddittorie. Si prevedono infatti sia un’accelerazione della crescita economica sia tassi di interesse sui titoli di Stato a livelli bassissimi, anche per effetto delle misure messe in campo dalla Bce proprio per sostenere la crescita. La vera difficoltà, continua De Novellis, non è tanto quella di raggiungere il pareggio di bilancio strutturale quanto il modo in cui ci si arriva. Farlo mentre si cerca di abbassare la pressione fiscale è ovviamente più complicato.

Le sanzioni – Che cosa succede se un Paese non rispetta i vincoli di bilancio? In teoria, se il debito in eccesso non scende può essere sanzionato anche se presenta un deficit “a norma” (entro il 3% del Pil). L’eventuale avvio della procedura viene però deciso tenendo conto dei fattori che influenzano il ciclo economico e valutando tre parametri: deviazione dal Pil potenziale, riduzione rispetto ai tre anni precedenti, prospettive per i tre anni successivi. Soltanto se lo Stato sotto esame è fuori dai parametri da tutti e tre i punti di vista possono scattare le sanzioni. Che devono comunque essere votate dal Consiglio europeo e precedute da una serie di avvertimenti. Un iter barocco e tortuoso il cui esito rischia di essere quello della montagna che partorisce il topolino.

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