Si chiamava Alejandro Márquez. Ed il racconto della sua morte – o meglio: come quella morte è stata raccontata, da chi ed in che luogo è stata raccontata – mette impietosamente a nudo le ragioni per le quali oggi, mentre in Venezuela la gente continua a morire nelle piazze, tanto arduo, forse impossibile, risulti aprire un vero ‘dialogo di pace’ tra governo e opposizione.

La storia è questa. Lo scorso 19 febbraio, in quel della Candelaria, a Caracas, Alejandro Márquez, 43 anni, di professione ingegnere e fervente antichavista, stava filmando con il suo cellulare le violente cariche ed i pestaggi con i quali la Guardia Nacional cercava di smantellare una delle barricate da lui e dai suoi compagni erette nel quartiere. Individuato da alcuni miliziani, aveva cercato di scappare, ma era stato raggiunto, bloccato e pestato a sangue, fino a sfondargli il cranio. Quattro giorni dopo era morto all’ospedale, senza aver mai ripreso conoscenza. O, almeno, questo era quello che, in estrema sintesi, avevano immediatamente riferito tutti i testimoni oculari.

Un’altra e molto differente fu però la storia che, una settimana più tardi, raccontò il capitano Diosdado Cabello, presidente della Asamblea Nacional. Lo fece, non nelle sue vesti istituzionali, bensì in quelle – altrove improponibili per un capo del potere legislativo – di conduttore televisivo per VTV, la più antica delle sette reti pubbliche esistenti nel paese. E qui vale la pena aprire una piccola parentesi. Del tutto sbagliato sarebbe definire ‘filogovernativi’ o, peggio, ‘faziosi’ i programmi di VTV o di qualsivoglia degli altri sei canali di Stato. Ed ancor più fuorviante sarebbe dedurre che, a causa di questa faziosità, l’opposizione non trovi, all’interno di questi canali, spazio alcuno. Perché tutte queste reti altro non sono in realtà – molto al di sotto della semplice faziosità – che strepitanti, esaltate casse di risonanza del ‘culto a Chávez, all’interno delle quali l’opposizione è, non solo presente, ma onnipresente, nelle vesti d’entità demonizzata, orripilante “rappresentazione del male” popolata esclusivamente da fascisti, golpisti, assassini e degenerati d’ogni sorta.

In questo quadro, tutti i talk show di matrice politica non conoscono che due varianti, non di rado tra loro intrecciate: quella della cerimonia religiosa e quella del plotone d’esecuzione, con tutti i fucili ovviamente puntati – spesso nella forma di illecite registrazioni di conversazioni telefoniche, evidentemente passate ai conduttori dai servizi di sicurezza – contro questo o quel dirigente dell’opposizione. In questi programmi, i conduttori televisivi non sono, in alcun modo, dei giornalisti più o meno di parte. Sono autentici squadristi della calunnia. E capitan Diosdado non rappresenta, in questi truci panorami, eccezione alcuna, come ben testimoniato dal titolo scelto, sulla fasariga d’un antico proverbio, per la sua trasmissione: ‘Con el mazo dando’, menando con il maglio (o, più propriamente, considerati molto consoni precedenti storici, con il manganello).

Dunque, tornando a bomba: che tipo di manganellata ha, nel caso specifico, vibrato il molto nerboruto capitan Cabello? Alejandro Márquez – ha raccontato di fronte alle telecamere il presidente della AN – non era un qualunque barricadiero (‘guarimbero’). Era un ‘sicario’ al quale era stato affidato il compito di assassinare Nicolás Maduro. E ad ucciderlo erano stati in realtà i suoi stessi mandanti, contrariati dal fatto che Márquez non aveva infine commesso il delitto che gli era stato commissionato. Di tutto questo, aveva garantito con molto marziali accenti il capitano, abbiamo ‘prove inoppugnabili’. Ed aveva mostrato la foto d’un gruppo di persone armate di tutto punto ed in abiti mimetici. Uno di loro – sorridente al centro dell’istantanea – era Alejandro Márquez. Gli altri, aveva spiegato Cabello, erano i suoi assassini. Tutti ovviamente parte del ‘golpe’ che, organizzato dalla destra fascista e dall’Impero, ha in questi giorni la sua punta d’iceberg nelle per nulla spontanee proteste di piazza. Nulla di tutto questo, aveva assicurato il capitano, resterà impunito…

Nel giro di poche ore s’è saputo – e questa volta davvero con ‘prove inoppugnabili’ – che: 1) quelle foto erano tratte da Facebook, social network abitualmente usato da assassini e cospiratori vari per annunciare (chiamatelo ‘crime sharing’, se vi garba) le proprie malefatte; 2) che Alejandro era, come i suoi presunti assassini, un appassionato di ‘softair’, legalissima pratica sportiva basata su una simulazione di guerra con armi assolutamente innocue. E 3) che proprio nel corso d’una partita di questo sport – cosa immediatamente confermata dalla Federazione Venezuelana di Softair – erano state scattate le foto mostrate durante ‘Con el mazo dando’. Il sicario ed i suoi mandanti erano tutti rispettabilissimi ed incensurati cittadini, tutti – tutti, ovviamente, tranne il povero Alejandro – pronti ad identificare se stessi.

Capitan Cabello, insomma, aveva mentito. Lo aveva fatto – rispettando quella che è una delle più solide tradizioni del chavismo – in diretta tv e con estrema grossolanità. Nonché con un molto personale tocco d’infamia e, come di consueto, con la totale impunità che solo la morte dello stato di diritto può garantire ai potenti. Nessuna scusa, nessuna rettifica. Tutto svanito nel vento (il rossiniano ‘venticello’ della calunnia), perso in un mare di menzogne troppo numerose e troppo “normali”, ormai, per essere, non dico punite, ma anche solo ricordate.

E la storia della ‘tv-manganello’ di Diosdado Cabello non finisce qui. C’è di peggio e, questo peggio, lo racconterò nel prossimo post. Come ormai si dice anche in Italia: stay tuned…

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