Illustre segretario del Pd e presidente del Consiglio Matteo Renzi,

di recente il suo compagno di partito Domenico Cento, consigliere comunale di Gioia Tauro (Reggio Calabria), tramite posta Facebook ha minacciato di querelarmi per un post, sulla mia bacheca, circa le dimissioni del sindaco della città, il Pd Renato Bellofiore. Non conosco Cento, che a sua volta non mi conosce.

Nel mio scritto ho riportato un fatto: con Domenico Savastano, altro consigliere gioiese del Pd, Cento ha presentato un emendamento al bilancio comunale di previsione, per decine di assunzioni nella raccolta rifiuti. L’emendamento, avversato dal sindaco, ha avuto pareri tecnici negativi; intanto perché il Comune, che gestisce da sé il servizio, avrebbe dovuto sopportare i costi di una trentina di esterni. Nello stesso post ho fornito un quadro dell’area, da calabrese che patisce in Calabria. Soprattutto ho espresso un’opinione personale, ampliata in un successivo post sul mio blog, ospitato da Il Fatto Quotidiano.

Ho dunque inteso le dimissioni del sindaco Bellofiore come un messaggio forte per la politica, non solo del luogo. A differenza del governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti – che, condannato, si è limitato ad annunciare le proprie dimissioni –, Bellofiore ha rinunciato subito alla poltrona, scrivendo al prefetto. Ha agito senza rinvii: per aver perduto la maggioranza con cui ha amministrato. Cento e Savastano, infatti, l’hanno spinto a prendere o lasciare, sicché Bellofiore non ha ceduto al ricatto politico nell’emendamento e si è dimesso.

A me, fuori delle vicende locali, il gesto di Bellofiore è parso un segnale bello, non confinabile nella provincia. Molti politici sono abituati a non mollare il potere e, pur di restare a palazzo, sono capaci di vendere la madre.

Chi le scrive, segretario-presidente Renzi, non ha interessi da difendere, se non quello della libertà di opinione e di stampa, che in Calabria – non lo dico da solo – è pari a zero, per causa di un pensiero dominante latamente mafioso. La mafia non è soltanto l’organizzazione che spara, ammazza, scioglie nell’acido e becca condanne. La mafia è soprattutto una cultura che vive del silenzio. Per me “mafia” è l’imposizione del silenzio, a prescindere da interessi e strutture criminali, al fine di salvaguardare o consolidare un potere. La Calabria è l’ultima regione d’Europa, anzitutto per il silenzio che la permea e attraversa; un silenzio cercato in vari modi; compreso quello tentato da Cento, che, estraneo a consorterie criminali, con minaccia di querela mi ha chiesto, per Facebook e in privato, di ritrattare semplici opinioni personali.

Ancora oggi – pensi alla mancata uscita del quotidiano L’Ora della Calabria – nella mia terra la politica è intoccabile: la stampa deve incensarla ed è un merito – come ha significato Ernesto Magorno, segretario del Pd calabrese, in una lettera inviatale sulla Tgr Calabria – seguire «puntualmente ogni iniziativa rilevante organizzata dal partito».

Replicando a una mia riflessione sulla libertà di parola pubblicata su L’Ora della Calabria, Cento ha annunciato di avermi querelato e di perdonarmi, se chiedessi scusa. È lui, converrà, che deve scusarsi: non tanto con me, quanto per il suo gesto in sé.

Segretario-presidente Renzi, se non interviene sulla libertà di parola e di stampa in Calabria, temo che il silenzio qui rottami presto i diritti, il buon senso e la passione civile, sganciati dall’anagrafe. 

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