Con la bocciatura per incostituzionalità delle legge 40 da parte della Corte Costituzionale sarà ora illegittimo vietare il ricorso a un donatore esterno di ovuli o di spermatozoi nei casi di infertilità assoluta. Pochi giorni prima del pronunciamento della Corte, mi aveva scritto Laura per raccontarmi del suo lungo viaggio verso la maternità. Un tragitto tra gli ostacoli imposti dalla legge 40, i giudizi e i pregiudizi, le regole spietate del lavoro, le ingerenze altrui e della Chiesa, l’idea che un figlio sia un dono e non una ricerca (ci crede solo chi i figli non fatica ad averli), l’esilio dal proprio inospitale paese, fino all’abbraccio più bello che in Italia non avrebbe mai avuto: quello di sua figlia.

Ora che il divieto è caduto, il punto sarà la corretta applicazione del diritto alla fecondazione eterologa. Quanto saranno pesanti le ingerenze della Chiesa? Quanti i medici “obiettori”? Cadremo nello stesso tranello dell’applicazione della 194?

Lo chiedono le donne come Laura, per le quali la bocciatura della legge 40 non è una rivincita, ma l’acquisizione di un diritto.

“Ciao,

nella mia vita avevo sempre pianificato tutto nei minimi dettagli. Poi, con un po’ di fortuna e spirito di sacrificio riuscivo ad avvicinarmi a ciò che desideravo. Quando decidemmo di avere un bambino, aspettammo di averlo nel momento migliore, e nell’ambiente che ritenevamo ideale. Ma i mesi passavano e io non rimanevo incinta anche se gli esami non rilevavano problemi seri.

Abbiamo quindi deciso di ricorrere alla fecondazione assistita, un percorso pesante dal punto di vista emotivo ed economico, ed è qui che iniziò la mia maggiore fatica, con un lavoro stressante che non prevedeva ferie se non a Natale e ad Agosto. Peccato che per queste cure non sia riconosciuto un periodo di malattia se non dopo il transfer, passaggio chiave a cui non si può arrivare senza avere avuto del tempo a disposizione per le cure. Nonostante ciò, facendo l’impiegata commerciale, sono riuscita a fare i controlli di monitoraggio nei ritagli di tempo e ricorrendo a qualche giorno di malattia di tanto in tanto, ma sempre con cellulare e computer accesi. Perché per il mio datore di lavoro essere malati significa non andare dal cliente, ma essere comunque sempre reperibile, per poi tornare appena possibile al lavoro. Per il mio caso specifico i 10 giorni previsti per il post trattamento, erano sulla carta ma non nella realtà, perchè avrebbe significato compromettere la vita lavorativa. “Approfittarsi“ di un permesso per malattia di 10 giorni significava vedersi togliere al ritorno i maggiori clienti e quindi le migliori opportunità di guadagno. Quindi, era fuori discussione essere onesti e far sapere che stavo facendo delle cure: le mamme nella mia azienda erano viste come risorse di serie b, anche se prima  di diventare mamme erano brave e competenti.

I tentativi di fecondazione andavano male: ho trovato strutture anche private che si rifiutavano di applicare tutte le opportunità della legge 40, come se non fosse già abbastanza limitativa. Non basta la chiesa a farci sentire giudicate per “pretendere un dono che invece va solo ricevuto”, per (secondo loro) “procreare senza amore”, per “procreare con l’ingerenza di terzi”. Io credo che non ci sia amore più grande di sacrificare se stessi per avere un figlio, mettendo a dura prova anche il proprio rapporto, che nel mio caso ne è uscito fortificato come non mai. Dopo lunghe riflessioni, ho deciso insieme a mio marito di licenziarmi per affrontare questo percorso senza lo stress del lavoro. A questo punto visto che avevo più libertà sono andata in una clinica a Barcellona, dove ho trovato personale preparatissimo e con un calore umano che ci ha aiutato ad avere fiducia.

Ci hanno proposto la Dgp (diagnosi pre-impianto), che in Italia viene etichettata come aborto selettivo, e che invece a noi è servito ad impiantare embrioni di buona qualità a scapito di quelli  non in grado di andare avanti. Per il mio sogno ho sacrificato un impiego, denaro, ho sofferto nel lungo percorso degli otto tentativi di fecondazione, ma ne è valsa veramente la pena. Stringere la mia piccolina tra le braccia vale qualsiasi battaglia. La maternità è una cosa indescrivibile, mi fa piacere condividere la mia esperienza perché la fecondazione è ancora ritenuta da molti quasi un tabù, si fa ma non si dice, e quindi è difficile condividere esperienze e scambiarsi consigli, ma soprattutto trovare un sostegno. In questi ultimi mesi sono nati nello stesso modo i bimbi di due mie grandi amiche e stiamo tifando tanto per un quarto che presto speriamo arriverà”.

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