Che cosa voleva dirci il ‘comandante eterno’ Hugo Chávez quando levava al cielo, come una fiaccola fonte di luce perenne, il libretto azzurro della Costituzione Bolivariana del 1999? E che cosa ci dicono oggi i suoi ‘figli’ ed ‘apostoli’ quando, con identico fervore, compiono il medesimo gesto? Una cosa molto semplice: ‘questa è mia, e di lei faccio quel che mi pare’. Una decina di giorni fa all’apostolo Diosdado Capello, presidente della Asamblea Nacional, è ‘parso’ che la deputata María Corina Machado, eletta con il più alto numero di preferenze dell’intera assemblea, dovesse esser privata del suo seggio. E così è all’istante stato, senza che all’espulsa fosse concesso di dire ‘bah’ a propria difesa. Il tutto alla faccia degli articoli costituzionali che garantiscono il diritto al ‘giusto processo’ (il 49) e che impongono (il 187, comma 20) super-qualificate maggioranze per decretare il decadimento d’un deputato eletto. Nonché, naturalmente, con il quasi immediato avallo (un vero e proprio ossequiente inchino, in effetti) del Tribunal Supremo de Justicia. Ovvero: dell’organismo che, dalla Costituzione previsto come gran sentinella del rispetto dei suoi principi e del suo spirito, è nei fatti diventata – da quando, nel 2004, il ‘comandante supremo’ l’ha riformata ed imbottita di suoi fedelissimi – zelantissimo garante della impunità di quanti la vanno, a loro piacimento e con ostentata sfacciataggine, stuprando in ogni sua parte.

Il caso della Machado è infatti, volendo parafrasare un celebre aforisma di Ennio Flaiano, certamente grave, ma non serio e, soprattutto, non nuovo. Solo qualche mese fa, quando Maduro chiese all’Assemblea d’approvare una ‘ley habilitante’ (vale a dire: di dargli il potere di legiferare per decreto), capitan Cabello trovò da par suo il modo d’aggirare, anzi, di frantumare l’articolo costituzionale che prevede, in questi casi, l’approvazione dei due terzi dell’Assemblea. Come? Prima liberando quest’ultima, grazie ad una serie di risibili d’accuse di corruzione (dal capitano presentate in Parlamento e subito avallate dal TSJ) dalla presenza dei deputati d’opposizione Maria Mercedes Araguren e Richard Mardo (entrambi dal capitano chirurgicamente scelti perché, guarda caso, erano gli unici della ‘bancada’ della MUD ad avere un supplente di fede chavista); e quindi forzando non solo la Costituzione, ma anche la matematica. Il voto finale contro Mardo fu infatti 97 a 68 (percentualmente 54 a 41) molto al di sotto dei due terzi richiesti dall’art. 187. Ma il capitano decise che andava bene così. Ed il TSJ (oh sorpresa!) immediatamente assentì.

Prima ancora c’era stata – quando l’ormai morente Chávez si trovava a Cuba in condizioni di salte mantenute rigorosamente segrete- la sentenza con la quale il TSJ d’autorità cancellò, come preventivamente richiesto da Nicolás Maduro, vicepresidente ed erede autentico del ‘supremo’, tutte le norme costituzionali che definivano le procedure nel caso d’impedimento permanente o temporaneo del presidente eletto. Come? Sentenziando che, a dispetto di tutti questi molto dettagliati articoli, Hugo Chávez sarebbe a tutti gli effetti restato, fino a quando lui stesso non avesse deciso il contrario, presidente della Nazione. Perché? Perché rispettare quegli articoli implicava informare l’opinione pubblica sul vero stato di salute di Chávez. Poco più tardi, morto Chávez, Il TSJ superò di nuovo se stesso, decidendo che, nel periodo precedente le nuove elezioni, l’incarico di presidente – che la Costituzione molto chiaramente affida al presidente della Asamblea Nacional e, in ogni caso, non a un candidato – dovesse essere ricoperto dal vicepresidente (e candidato presidenziale) Nicolás Maduro. Perché? Ovviamente perché l’erede designato da Chávez desiderava utilizzare, nel corso della campagna elettorale, le cosiddette ‘cadenas’. Vale a dire: la possibilità d’usare a suo piacimento i messaggi tv a reti unificate, privilegio, questo, concesso solo a chi è presidente.

Questo per fermarsi solo ai casi più recenti o, per meglio dire, agli ultimi anelli d’una catena che dipanatasi lungo l’intero quindicennio chavista, è passata per tre snodi fondamentali. Il primo è, per l’appunto, il totale asservimento del potere giudiziario. Le altre due riguardano quelle che, del potere, sono in Venezuela le principali sorgenti: le forze armate ed il petrolio. Le prime ridotte, contro la ‘neutralità’ sancita dalla Costituzione, ad una appendice (non solo politica, ma anche ideologica) del potere esecutivo. Come lo stesso Chávez s’è premurato di sentenziare nel febbraio del 2012. ‘Le forze armate sono chaviste – ha detto e ripetuto il ‘supremo’, applaudito dagli alti comandi – e se a qualcuno la cosa non piace, peggio per lui (‘duélale a quien le duela’). Il secondo, sottratto ad ogni controllo pubblico (come previsto dalla Costituzione) attraverso un trucco di bilancio, ed incostituzionalmente  dirottato, complice il solito TSJ, verso fondi di esclusiva ed assai opaca gestione del governo (alla faccia del ‘petrolio restituito al popolo’).

Questo è il Venezuela che il caso della deputata María Corina Machado è tornato a rivelare. Un paese che, forse, non è ancora una dittatura, ma che di certo non è più, e da tempo, una democrazia. Un paese derubato d’ogni legalità costituzionale, indispensabile base di quel ‘dialogo nazionale’ di cui ha un vitale bisogno per evitare una soluzione violenta della crisi che l’attraversa. Sarà possibile cambiare rotta? Io sono molto pessimista.

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