Il cinema è un’industria creativa che dà lavoro a moltissime persone. E come tale, dunque, andrebbe sostenuta e messa in condizioni di produrre di più, magari favorendo – senza ideologie autarchiche ma valorizzando le competenze che abbiamo – le produzioni italiane.

Detto questo però, non posso nascondere la sensazione di letterale frustrazione che ho ogni volta che mi capita – ad esempio ieri, per il nuovo film Cuccioli. Il paese del vento, nato dall’omonima serie televisiva spagnola coprodotta anche da Raifiction  – di andare al cinema a vedere un film per bambini. Non vorrei sembrare una vecchia signora infastidita dalla modernità, ma la prima cosa insopportabile cui si viene sottoposti è il volume al quale i film, anche quelli per piccolissimi, vengono proiettati. Dopo essersi sorbiti poi almeno un quarto d’ora di pubblicità, tra prodotti e altri cartoni in arrivo, il bambino di pochi anni vede arrivare sullo schermo un film montato a una velocità assurda, che rende quasi impossibile seguire lo svolgimento o comunque costringe a uno sforzo visivo (e cognitivo) inaudito.

Poi c’è il resto, cioè le storie e le sceneggiature. Che, purtroppo, sono ormai quasi sempre concepite esattamente come un thriller hollywoodiano, con tutto il relativo (e scontato) copione. C’è un personaggio cattivissimo che vuole distruggere i buoni che vivono tranquilli. Questo personaggio mette in atto una strategia malvagia, che potrebbe avere conseguenze catastrofiche sull’intero paese (in questo caso, quello del vento). I buoni, messi sotto scacco, reagiscono e, dopo tutta una serie di colpi di scena che più che sorprendenti sono inutilmente ansiogeni e rumorosi, si arriva alla scena finale. In questo caso, proprio come in qualsiasi 007, in cima a una specie di marchingegno volante che vola sul vuoto. Prima sono i protagonisti buoni che sono ad un passo dall’essere spinti fuori e uccisi, poi la situazione si rovescia, poi si controrovescia, alla fine i cattivi vengono catapultati via e i buoni vincono. Nel copione, ovviamente, non manca la fase in cui i malvagi costruiscono la fabbrica infernale di robot che a un certo punto produce enormi macchine volanti che arrivano a distruggere tutto il paese, con relative scene violente.

Il problema, oltre alla trama (anche nelle favole antiche per bambini esistono i cattivi che vogliono distruggere e i buoni che reagiscono), sta anche nella caratterizzazione dei personaggi. I cattivi sono grotteschi più che malvagi, i buoni sono banali e anche loro stereotipati. Le conversazioni sono velocissime, spesso piene di battute e doppi sensi da adulti che i piccoli non posso comprendere. Nel caso del film in questione, poi, la colonna sonora – con brani da grandi, “rappati” per i piccoli ma in maniera imbarazzante – fa il resto, così come gli inviti diretti ai bambini che guardano a reagire come dicono loro (battete le mani, seguiteci, fate questo, non fate quello).

Si esce avendo la sensazione che non ti rimanga nulla, se non molto rumore e un copione talmente veloce, assordante, violento e soprattutto poco poetico, che quei soldi – non pochi, oggi – sembrano sprecati. Basta andare a casa e guardarsi un Biancaneve o una Spada nella Roccia per capire l’abisso che separa i cartoni di un tempo da quelli di oggi. E davvero non si tratta di fare i tromboni o i lodatori dei tempi che furono.

In quei film, infatti, esistono i buoni e cattivi, ma entrambi sono raccontati con dei sapienti chiaroscuri e un’intensità emotiva che non ha pari. Ma il punto è soprattutto un altro: c’è, in quei film antichi, la capacità di mettere in scena in maniera toccante e non banale le paure e le angosce di chi guarda. La sceneggiatura, in altre parole, diventa il racconto visivo delle nostre ossessioni – come quando Biancaneve si perde nel bosco e le ombre si allungano su di lei –, del nostro impaurito interno, consentendo ai bambini che lo osservano di riviverlo ed elaborarlo.

Nei cartoni di oggi invece il conflitto resta solamente esterno e non ha più niente a che fare con i terrori profondi che i bambini vivono. È come assistere a un’inutile e rumorosa guerra che non li riguarda, piena di sofisticati colpi di scena e personaggi graficamente perfetti ma che non svolgono più il loro compito originario. Quello di esorcizzare le angosce, farle riviverle attraverso i personaggi e lo sviluppo degli eventi, infine – attraverso un happy end che ha bisogno più di poesia che di insensati coup de théâtre – aiutare i piccoli a superarle. Per tornare a casa più sereni, non più incattiviti e nervosi.  

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