A ripensarci oggi, esattamente vent’anni dopo, sembra incredibile che La Voce sia durata così tanto; durò infatti poco più di un anno avendo aperto i battenti il 22 marzo 1994 per poi chiuderli il 12 aprile 1995. Tanto o poco? Più di un anno di libertà assoluta vi pare poco? A chi ebbe l’onore di fondarlo e di lavorarci pare tantissimo, se si pensa che Indro Montanelli di anni ne aveva 85 ed era già allora in odore di beatificazione come il riconosciuto papa del giornalismo italiano; ma chi gli era accanto nella redazione del “Giornale” sapeva anche che era proprio questo a renderlo inquieto.

Cercava un modo per ribellarsi al mausoleo in vita e le circostanze lo aiutarono. Le aveva provate tutte per convincere il suo vero editore, non Paolo ma Silvio Berlusconi, a non entrare in politica, trasformando di conseguenza la sua creatura in un organo di partito. E quando Berlusconi ufficializzò la nascita di Forza Italia, e arrivò ad annunciarlo di persona all’assemblea dei redattori, assicurando che se il giornale gli fosse stato accanto aiuti e risorse non sarebbero mai mancate, Indro capì che poteva finalmente togliere il disturbo. Non per tornare al Corriere, dove lo avrebbero accolto come un re, ma per fondare un altro quotidiano controcorrente, uguale e opposto a quello da cui lo stavano sfrattando, una casa che fosse anche un rifugio per la sua unica famiglia, i suoi collaboratori. Come era già capitato con la nascita del “Giornale”, Montanelli sapeva di essere solo, ma nemmeno questo gli dispiaceva. Sapeva bene che solitudine e libertà sono sorelle, “In Italia, addirittura gemelle”. Ma nemmeno un virtuoso della misantropia come lui, “uno che sta in mezzo agli altri per sentirsi più solo”, come aveva detto Longanesi, poteva immaginare quanto.

La Voce nacque come “public company”, come società ad azionariato diffuso di cui nessuno possedeva il controllo; ed ebbe all’inizio un successo clamoroso. Il primo numero vendette 500 mila copie; si continuò a ristampare e a brindare fino a notte fonda. Qualcuno disse che avevano messo la minigonna a Montanelli, e c’era del vero: il vicedirettore Vittorio Corona si era inventato un progetto grafico assolutamente innovativo, fino alla provocazione, con la prima pagina dominata da un grande fotomontaggio che prima venne attaccato, e però poi copiato da tanti. Forse nemmeno Montanelli si aspettava un giornale così lontano dal precedente, e da tutti gli altri; ma indossò volentieri la minigonna, pur di gettare alle ortiche il laticlavio.

Le battaglie furono talmente tante, a cominciare contro quella contro il nuovo padrone d’Italia, che è impossibile anche solo farne un elenco. Ma ciò che fu più straordinario di quell’anno è impossibile da descrivere a parole, e anche in immagini: il clima impalpabile e irripetibile dei Voce days. C’era, in quelle stanze di via Dante, come l’ultima coda di una cometa, la magia delle storie destinate a durare per poco e dunque per sempre, l’ultimo alito dei giornali del secolo scorso, un senso di happening permanente, i lettori e gli amici che passavano in redazione anche solo per fare il tifo, Elio delle storie tese praticamente di casa, i colleghi anche illustri arrivavano in incognito e confessavano la loro invidia per un giornale che, nato senza altri amici che non fossero i lettori, poteva permettersi di farsi un nemico diverso ogni giorno. Non mancarono i contrasti, né la fronda di chi riteneva la linea troppo radicale; ma Montanelli rimase il più giovane e il più felice di tutti; dopo essersi beccato per vent’anni del fascista, adesso si beccava del comunista e il suo indomabile ribellismo di “anarchico borghese” andava finalmente in pari. Non poteva durare, e infatti non durò. Lentamente i vecchi lettori di tradizionale osservanza abbandonarono la Voce, non sostituiti a sufficienza dai lettori giovane ed entusiasti.

Soprattutto, nell’Italia in cui Berlusconi era diventato premier, il giornale aggredito sistematicamente dai suoi nemici e abbandonato dagli azionisti: non c’era evidentemente spazio per una destra liberale, come ebbe a scrivere Montanelli nel suo editoriale di addio. Nella patria dei gattopardi, dove tutto si ricicla, tutto si aggiusta e tutto rinasce, la cometa della Voce passò per non tornare più. Da quell’impossibilità di rivivere si capì quanto era stata pura la sua nascita. Ma se la vita fu breve, l’idea di un giornale libero e solitario, dove l’unico padrone è il lettore, continuò a vivere. Nessuno mi toglie dalla testa che, se non ci fosse stato il clamoroso fallimento della Voce, non ci sarebbe stato il clamoroso successo del Fatto, e che se nell’altro mondo ci sono le edicole, è proprio Il Fatto che ogni mattina va a comprare il vecchio anarchico borghese. Non solo le colpe, ma anche i sogni dei padri ricadono sui figli.

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