“In rerum natura – diceva, – non ci son che due generi di cose: sostanze e accidenti; e se io provo che il contagio non può esser né l’uno né l’altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera”. Dopo qualche passaggio paralogico, effettivamente don Ferrante “dimostrava”  l’inesistenza del contagio. Poi però si ammalava di peste e moriva. Con un “ragionamento” molto simile (ma fortunatamente senza la possibilità di esiti egualmente tragici) Fabio Scacciavillani apriva, mercoledì, un articolo su Il Fatto Quotidiano intitolato “L’Illusione di Bitcoin, moneta troppo virtuale. L’incipit, in sostanza, suonava così: la moneta può essere solo legata ad un bene materiale o ad un’autorità politica; un bitcoin non rientra in nessuna delle due fattispecie, quindi una moneta simile non può esistere.

E’ interessante come questa moneta “inesistente” sia oggi scambiata per circa 700 dollari “al pezzo” su tutti i principali mercati, e questo proprio a pochi giorni di distanza dal crollo delle quotazioni a seguito del clamoroso fallimento di uno dei principali exchange (banche fiduciarie di tipo tradizionale, utilizzate per scambiare facilmente e velocemente monete a corso legale con bitcoin e viceversa), fallimento riportato su vari media internazionali con ridicolo pressapochismo e superficiale allarmismo, tanto che alcuni commentatori si sono spinti fino a parlare di inesistenti “falle nel protocollo Bitcoin” o a profetizzare (per ora con poca fortuna) l’imminente “morte del protocollo Bitcoin”.

Prima di proseguire, è doveroso premettere che il protocollo open source Bitcoin (con la maiuscola) non si riduce ad essere “una moneta”: è un innovativo sistema distribuito e pseudonimo (ma non anonimo: la differenza è sottile ma importante) di assegnazione e trasferimento di titoli di proprietà, basato sulla crittografia asimmetrica, sulle caratteristiche delle reti informatiche peer-to-peer, sul brillante concetto di blockchain e su un ingegnoso meccanismo di incentivi economici. La moneta conosciuta come bitcoin (con la minuscola) è solo una delle prime e più immediate implementazioni di un simile protocollo: per certi versi anche una delle meno rivoluzionarie. Le intuizioni tecnologiche alla base di Bitcoin hanno un potenziale realmente rivoluzionario, soprattutto in ambiti al momento ancora pionieristici come quello degli “Smart Sontracts”, della “Smart Property”, delle “Distributed Autonomous Corporations”. Rimaniamo però al primo caso concreto di utilizzo del protocollo Bitcoin: lo scambio sul mercato dell’omonima moneta.

La prima considerazione di Scacciavillani è che “Bitcoin non ha alcun valore intrinseco”… ed è assolutamente corretta: come la scienza economica insegna già dai tempi della Seconda Scolastica (ed è tornata ad insegnare, dopo la sfortunata regressione della “labour theory of value” di Adam Smith, a seguito della rivoluzione marginalista e degli studi della Scuola Austriaca) nessun bene ha mai un “valore intrinseco“! Il valore che si può assegnare a un bene è sempre relativo ad uno scambio, effettivo o potenziale: questo valore risulta dall’utilità (marginale) soggettiva della risorsa per chi scambia, e dalla sua scarsità.

Un software, come ad esempio la suite proprietaria Microsoft Office (ma lo stesso discorso si applica a prodotti open source come Linux e come lo stesso Bitcoin), non ha ovviamente un valore “intrinseco”, così come non lo hanno un lingotto d’oro, un diamante, una sigaretta o un dollaro americano, ma acquisisce sul mercato un valore di scambio tutt’altro che trascurabile. Un singolo bitcoin (o un suo sottomultiplo) è qualcosa di paragonabile ad una singola licenza di Office: l’utilità soggettiva per gli utenti è data in entrambi i casi dalle caratteristiche tecniche del prodotto, la scarsità emerge inevitabilmente dal protocollo nel primo caso, mentre dipende dalle policy di protezione del software proprietario nel secondo. Dato il numero finito di bitcoin che è possibile produrre, il loro valore di mercato (rigorosamente non intriseco) non potrà che salire nel caso in cui le persone ne facciano un uso maggiore di ora, o scendere nel caso opposto.

La seconda considerazione di Scacciavillani è invece errata: il fallimento di MtGox non fornisce alcuna “lezione” relativamente a Bitcoin. Il principio su cui si basa il protocollo, infatti, è sintetizzabile nello slogan: “Tu sei la tua banca”, ovvero l’esatto opposto della filosofia alla base di un prestito fiduciario ad un ente di tipo “bancario”, come era MtGox a tutti gli effetti. Gli utenti che avevano deciso di trasferire per un lungo periodo la proprietà di alcuni bitcoin all’azienda di Karpeles, per poter così speculare sulle variazioni del cambio rispetto alle valute nazionali, stavano rinunciando proprio alle caratteristiche fondamentali e distintive di un protocollo distribuito e trustless come Bitcoin, fidandosi, con tutti i rischi del caso, delle note di credito di un ente terzo.

La “lezione” che il fallimento di MtGox ci può impartire non riguarda Bitcoin ma, all’opposto, proprio quei sistemi tradizionali, centralizzati e basati sulla fiducia, che Bitcoin vorrebbe aiutare a superare. E se questa “lezione” vale per imprese in concorrenza tra loro e soggette al severo giudizio del libero mercato, gli exchange di bitcoin, a maggior ragione vale per giganteschi enti monopolisti, gestiti da oscuri burocrati o da politicanti irresponsabili, le cui decisioni non sono vagliate dalla scelta dei consumatori ma imposte per legge, con le armi degli stati nazionali: le Banche Centrali. Non c’è bisogno certamente di citare la Reserve Bank dello Zimbawe per trovare esempi di irresponsabilità, inefficienza, furto e corruzione di diversi ordini di grandezza più gravi di quelli che stanno dietro alla banca MtGox.

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