Cosa vive dentro la parola disabilità?

Inizio a chiedermelo sempre più spesso. Da sempre ho ritenuto che questa classificazione sia da un lato superficiale come tutte le classificazioni e dall’altro molto poco rappresentativa.

Se, infatti, è vero che è necessaria una classificazione sulle molteplici categorie sociali, dall’altro mi appare sempre più stonato il risultato concreto. Ad esempio, disabile è colui che può condurre una vita completamente autonoma e limitata dalle barriere architettoniche. Vive però l’autonomia mentale di poter scegliere da sé.

Esiste chi al contrario è disabile perché non ha una completa autonomia cognitiva. In questi casi, a seconda della condizione, la dipendenza da qualcuno diventa decisamente più evidente.

Esistono poi una enormità di condizioni intermedie che possono essere poco limitanti o quasi completamente limitanti rispetto un’autonomia.

Fino ad un po’ di tempo fa ritenevo che questo potesse essere superabile grazie alle norme, grazie alle competenze degli operatori, grazie alla conoscenza specifica nell’ambito delle relazioni private e sociali.

A oggi invece credo che andrebbe rivoluzionato il concetto di disabilità. La necessità si evidenzia a mio avviso già dal momento dell’integrazione scolastica. Le esigenze specifiche sono talvolta diametralmente opposte. E se, brutalmente parlando, si può richiedere alla scuola di dover essere preparata alle necessità degli alunni, va anche ammesso che le esigenze specifiche esistono e sono tante.

Ora Diletta è alle superiori e da poco mi sono ritrovata a dover studiare la differenza tra programmazione differenziata e obiettivi minimi.

Il caso di Diletta è davvero a metà. Grave tetraplegia e, quindi, impossibilità di usare gli arti superiori oltre quelli inferiori. Ritardo cognitivo molto difficile da classificare. Diletta è presente a sé, ha i suoi gusti, le sue materie preferite e quelle che detesta. Certamente non le è possibile svolgere il programma di classe, ma anche il differenziato può crearle disagio perché tende ad essere un concetto massificato destinato a disabilità prevalentemente cognitive, compensate da una programmazione basata di più sugli aspetti manuali.

La scelta non è facile. La sensazione che ho provato è quella di ritrovare le migliori indicazioni nella programmazione differenziata. E poi però trovare delle proposte all’interno di questa programmazione lontanissime da Diletta e dalle sue potenzialità. Non parlo di meglio o peggio. Parlo di adeguatezza del sistema che dovrebbe essere finalizzato (per tutti gli alunni) a tirare fuori il massimo potenziale.

Ma la scuola non è l’unico test di questa classificazione che a volte diventa una valanga in più. I viaggi e i relativi trasporti, l’inserimento in attività extra didattiche.

Inizio a pensare al suo futuro e come tutti mi chiedo e le chiedo quale potrà essere la scelta migliore. C’è tanto buio. Inabilità al lavoro. Centro diurno? Vorrei realizzare qualcosa di diverso. Qualcosa che riesca ad individuare nei ragazzi le vere potenzialità. Un impegno concreto che formi anche gli operatori costruendo una professionalità specifica che forse ancora manca.

Autonomia. Ha senso parlare di autonomia a tutti i costi? Non sarebbe più realistico parlare di non autonomia e su questo cucire le migliori opportunità individuali?

Sarà una mia visione un po’ utopica , però inizio a credere che quando in Italia si promuovono e si finanziano progetti ci sia un enorme ricorso al “copia e incolla”. Progetti da anni sempre uguali, sempre fantascientifici sulla carta. La traduzione reale quale è? La disabilità psichica finisce a dipingere e a fare lavoretti solo raramente dentro un vero progetto integrativo. La disabilità mista finisce a casa con i genitori perché finanziare l’assistenza alla disabilità motoria grave è un costo che non rientra nelle progettazioni.

Se un centro nasce per la disabilità, è giusto che possa scegliere quale disabilità ammettere? Ma allora la distinzione nei fatti esiste già. Perché non formalizzarla e prevedere delle semplici pari opportunità?

Siamo entrate nella fase dell’adolescenza da un po’ ormai, e di certo in questo periodo della crescita noi genitori abbiamo ben chiaro che su questo fronte c’è da fare praticamente ancora tutto. Non rimane che rimboccarsi le maniche!!!

Articolo Precedente

Felice chi è diverso, l’8 marzo a Milano anteprima con Gianni Amelio

next
Articolo Successivo

Romania, 80mila “orfani bianchi”: le loro madri assistono noi e lasciano soli loro

next