Anche il Fondo Monetario Internazionale ha cominciato a rivedere la sua ortodossia neo-liberale affermando che non si lenisce la crisi senza redistribuire. Tuttavia non dobbiamo farci troppe illusioni, gli epigoni dell’austerità non lasceranno facilmente campo ai sostenitori della redistribuzione. Il nucleo del problema risiede nella relazione spesso conflittuale fra gli interessi del capitale e quelli del lavoro (consiglio vivamente di leggere Navarro sul tema). 

La crisi nasce e si alimenta dallo strapotere del capitale sul lavoro. Tale processo ha preso avvio negli anni ’70 per diventare paradigma dominante quando i partiti social-democratici si sono allineati all’ortodossia neo-liberale. I governi Mitterand, González, Blair, Schröder e (parzialmente) Prodi (vedi pacchetto Treu e privatizzazioni) hanno contribuito a ridurre i diritti dei lavoratori proseguendo nella direzione scelta dalla Thatcher e da Reagan. Questo paradigma è giustificato con l’idea che, in un’economia globale, occorre aumentare le esportazioni (anche) comprimendo salari e stato sociale. A tal proposito, si presuppone che fuori dal nostro continente vi saranno mercati capaci di assorbire tutta l’offerta addizionale (un assunto questo, tutto da dimostrare). In questo contesto, la flessibilità del lavoro, la riduzione della protezione sociale (specie per i giovani), la maggiore mobilità del capitale e dei fattori produttivi (grazie alla moneta unica e alla globalizzazione) sono diventati mantra comune a destra e a sinistra.

Tuttavia, il perseguimento di questa strategia ha delle conseguenze pesanti sul lavoro: la percentuale di Prodotto Interno Lordo dedicata ai salari è scesa in tutti i paesi Europei (del 6,9% nell’Ue e del 7,1% in Italia negli ultimi quaranta anni), e al contempo, la disoccupazione è cresciuta in modo esponenziale. La “compressione” dei salari e la “mancanza” di lavoro hanno avuto un impatto negativo sulla capacità di acquisto della classe media, e per evitare il tracollo dei consumi (e con essi del capitalismo) i governi Europei hanno favorito, grazie alla deregolamentazione del mercato finanziario, un processo massiccio d’indebitamento.

La crescita del debito pubblico e privato (necessario a sostenere il consumo) ha fornito grandi opportunità speculative al capitale. L’esposizione fortissima delle banche è dovuta a questo sistema: prestare quantità crescenti di denaro ai paesi (acquistando titoli del loro debito) e ai privati (per esempio finanziando mutui) permetteva l’incasso di rendimenti altissimi. Più è alto il rischio di default, infatti, maggiori sono gli interessi da pagare per trovare un finanziatore del debito. Così mentre le banche lucravano sul debito greco, esse si esponevano al rischio di default del paese mediterraneo. Allo stesso tempo, il consumo veniva “drogato” al di là della sostenibilità. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti, la Grecia deve razionare i servizi fondamentali per ripagare il debito contratto, e questo agevola il compito di chi vuole tagliare salari e stato sociale (sulle conseguenze funeste di queste politiche mi sono già espresso qualche tempo fa dalle colonne di questo blog).

La moneta unica s’inserisce in questo quadro. Per ridurre la spinta anti-europeista e soprattutto mitigare gli effetti della crisi, l’Unione Europea deve sostenere in modo convinto una serie di politiche sociali “compensative” atte a contro-bilanciare la polarizzazione delle risorse dovuta all’euro forte. Per fare un esempio, i paesi con un forte surplus della bilancia commerciale (Germania e Finlandia per esempio) dovrebbero indennizzare attraverso dei trasferimenti sociali, i paesi mediterranei che soffrono per la loro minore competitività e l’impossibilità di svalutare la moneta. Tuttavia questo non esclude la necessità da parte dei paesi mediterranei di ridurre l’evasione fiscale, mettere a posto i conti e avviare un processo di redistribuzione interna della ricchezza (come ho più volte sostenuto). Se da un lato alcuni paesi devono redistribuire parte dei guadagni ottenuti grazie alla moneta unica, dall’altro quelli che soffrono per l’euro forte devono dare chiari segnali di cambiamento nella gestione della finanza pubblica. Questo meccanismo solidaristico può funzionare al meglio solo se il processo redistributivo sarà approntato direttamente dall’Unione (evitando le perenni diatribe fra gli stati membri). Si potrebbe per esempio redistribuire il gettito dell’IVA attraverso politiche per i giovani disoccupati dell’Europa Meridionale.

In sintesi, ci sono tre problemi che ci impediscono di ripartire: (1) l’assenza di politiche sociali compensative che bilancino gli squilibri creati dalla moneta unica; (2) il taglio del costo del lavoro perseguito con le politiche di austerità; (3) il tracollo della domanda interna dovuto alla compressione dei salari. La risposta a questi problemi è la redistribuzione. Redistribuire dal capitale al lavoro, redistribuire dai ricchi ai poveri, redistribuire da chi si avvantaggia della moneta unica a chi ci perde. Tuttavia nel lungo periodo bisognerà andare oltre la redistribuzione e interrogarsi sulle contraddizioni del capitalismo finanziario basato sul consumo.

In conclusione, il cuore del problema riposa nella relazione spesso conflittuale fra capitale e lavoro. Bisogna ripartire dagli ultimi per garantire il funzionamento dell’intero sistema. Back to the Basics come Marx ci ha insegnato.

Articolo Precedente

Sorgenia, solo la punta dell’icerberg

next
Articolo Successivo

Nomine, un manager vale più di un ministro

next