Lodi_Cipì“Quando entravo in classe, ci mettevamo in cerchio per poterci guardare in faccia, non allineati in modo che uno coprisse l’altro. Toglievo la cattedra perché non serviva. Lì nasceva la base della democrazia, l’abitudine alla democrazia”. Mi aveva risposto così, il maestro Mario Lodi, quando gli chiesi: “Cosa faceva lei quando entrava in aula?”.

Il maestro, ieri – come hanno scritto gli amici della Casa delle arti e del gioco – è “volato nel cielo azzurro, insieme a tutti i Cipì che gli vogliono bene”.

Avevo letto anch’io il suo “Cipì” alle elementari. La maestra Teresa, ogni sabato, ci raccontava quella storia nata nella piccola scuola di Vho, dai bambini. Trent’anni più tardi, ora che qualcuno chiamava anche me “maestro”, sentii il desiderio di andare a guardare negli occhi quell’uomo che aveva donato alla scuola italiana, gli attrezzi per educare alla vita.

Lo incontrai a Drizzona, in quella cascina sulla strada tra Mantova e Cremona, dove una volta andato in pensione, aveva dato vita alla Casa delle Arti e del Gioco.

Il maestro Lodi, in realtà non ha mai abbandonato l’aula. I bambini li continuava ad accogliere in quello spazio. E con loro incontrava ogni giorno maestri, ex allievi oggi papà e nonni, ma soprattutto studenti universitari. Mi ritrovai di fronte a due occhi azzurri profondi, uno sguardo che sembrava portare con sé i volti e la gioia di tutti quei ragazzi che aveva incontrato.

Nessuna vanità, nessun moto d’orgoglio. Mario Lodi, nonostante una laura ad honorem, oltre ventotto ristampe del suo Cipì e riconoscimenti in tutto il mondo, era rimasto il maestro. L’intervista divenne presto il dialogo tra due maestri, da cui io sentivo solo il desiderio d’imparare.

“Per fare il maestro serve un ingrediente che non è previsto nei regolamenti; bisogna sentire l’amore verso i bambini che hanno bisogno di tutto e noi possiamo darglielo”. Prima regola.

Mario Lodi, i suoi ragazzi li aveva amati uno ad uno. Come tutti i maestri ricordava ancora, a distanza di anni, i loro nomi. Per lui, che aveva contribuito dopo la seconda guerra mondiale, a far nascere la scuola pubblica statale, la Costituzione doveva continuare a essere vissuta nelle aule: “La scuola dev’essere la seconda casa del bambino. Quando entra in classe, deve portare con sé delle abitudini che diventano democrazia in atto. Se noi consideriamo l’aula la nostra seconda casa, le vogliamo bene e quindi la difendiamo da chi vuole distruggerla, diventiamo “patrioti” della democrazia e impariamo il rispetto per l’ambiente”.

Aveva le idee chiare anche sulla valutazione, le stesse di don Lorenzo Milani che aveva conosciuto e con il quale aveva iniziato una corrispondenza tra i ragazzi di Vho e di Barbiana: “Nella Costituzione non c’è mai un articolo che parli di bocciare. C’è il verbo promuovere. I fanciulli non vanno mai messi nelle condizioni di essere bocciati”.

Ho riletto tante volte quell’intervista a Mario Lodi, riportata nel mio Riprendiamoci la scuola. L’ho letta spesso la sera prima di andare in classe. L’ho presa in mano tutte le volte che qualche dirigente o qualche ministro ha anteposto la sua “legge” alla Costituzione. I suoi libri li dovrebbero conoscere tutti i maestri, dovrebbero essere studiati all’università, portati in classe. 

“Andate avanti”, ha lasciato detto agli amici indicando la strada da percorrere con forza e speranza. Non sarà facile, soprattutto in questi tempi.

Ci mancherà, maestro.

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