Uffa, direte, che vuoi che sia il 2, 8 per cento di share e neanche mezzo milione di telespettatori di un giovedì sera di febbraio. Smaltite il vizio (non di rado stupido) di valutare una trasmissione dai numeri d’ascolto, soprattutto se l’editore è un servizio pubblico, e pensate che quest’ottimo risultato l’ha prodotto La Superstoria di Rai 3, un programma che fa bene a chi guarda la televisione. E fa bene perché, senza avere pretese pedagogiche, mostra la televisione con un linguaggio non metafisico e sofisticato, ma con l’effetto primordiale del mezzo: l’immagine. E ci racconta un passato illuminato o disilluso attraverso un narratore raffinato, Andrea Salerno, che definire onnisciente sarebbe riduttivo e scolastico. 

Rai 3 ha scomodato La Superstoria per celebrare i sessant’anni di viale Mazzini e Salerno, che poteva scadere nel banale, nel ripetitivo, nel tautologico (cos’è il nuovo, oggi?), s’è permesso di rovistare fra le teche di viale Mazzini e annodare il percorso (perverso) di una televisione che nacque pubblica e morirà altrove. La Superstoria, che sollecita la memoria a un pubblico che consuma spesso senza coscienza, ci aiuta a fissare l’epoca che asfaltiamo con frugalità intellettuale e, impegno ancora maggiore di coesione nazionale direbbero al Quirinale, ci dice chi cavolo siamo diventati. È come se andassimo a sbirciare nel cestino della spazzatura, si spera differenziata, per capire di quali mostruosità ci nutriamo.

La tecnica di Andrea Salerno è proprio quella maieutica: cerca di spingere l’interlocutore (cioè il telespettatore) a comprendere il significato di un concetto, di un argomento, di una stagione italiana. Quando viale Mazzini costruisce un fallimento e spreca migliaia di euro, senza pregiudizi, vanno evidenziati gli errori e vanno individuati i responsabili, ma quando la tradizione migliore viene rinnovata – e questo è un caso – va ringraziato anche il direttore di Rai 3, Andrea Vianello. Perché La Superstoria, che può sembrare un accrocchio intellettualoide, ha il merito di costare 5.000 euro a puntata. Secondo i parametri televisivi, questi 5.000 euro, spesso, sono spiccioli utili per comprare un vestito per Antonella Clerici o Mara Venier.

Salerno, autore televisivo e produttore con Fandango, è anche l’ideologo di Gazebo, una trasmissione sperimentale, che non penalizza il bilancio di viale Mazzini con i suoi 30.000 euro a serata, ma che va tutelata. A volte, la mezz’ora prevista viene compressa, deturpata dai palinsesti che, per natura congenita, intimano fretta e precisione. Gazebo ha creato personaggi come Zoro (Diego Bianchi) e, spesso, descrive la politica dei palazzi meglio di qualsiasi scafato retroscenista. Adesso per Gazebo è il momento di fare un salto, di applicare il modello interpretativo di fatti centrali o laterali non soltanto nell’emiciclo storico di Roma o nel narcisismo (goffo) di Twitter. Ma Rai 3 deve aiutare Gazebo se ci crede. E poi chissenefrega se un pubblicitario esclama: uffa, che ascolti. La qualità non è roba da discount.

Il Fatto Quotidiano, 2 marzo 2014

 
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