Guerra civile e rivoluzione costituiscono due fenomeni distinti e separati – anzi direi antitetici -, anche se a volte collegati fra loro nelle contingenze storiche. Distinguerli è importante, perché la prima costituisce un avvenimento assolutamente da scongiurare. Se la guerra è una cosa orrenda, la guerra civile lo è se possibile anche di più. Mantenere una concordia nazionale attorno ad alcuni principi chiave che consentano la coesistenza e la competizione pacifica fra opzioni contrapposte. E’ questa la grande scommessa della democrazia. Se la concordia viene meno c’è il rischio di precipitare nella guerra civile, un rischio di cui a volte ci si avvede quando è troppo tardi.

La rivoluzione invece è qualcosa di positivo. Può essere violenta, ma non necessariamente deve esserlo. Essa invece necessariamente comporta la sostituzione degli ordinamenti giuridici di una società oramai inadeguati con altri, più favorevoli alla partecipazione di ampie masse di popolazione, la liquidazione di poteri oligarchici e di gerarchie sociali prive di senso. 

La rivoluzione può però degenerare in una guerra civile, se le classi spodestate non acconsentono pacificamente a perdere i propri privilegi e se ci sono interventi di potenze esterne. Un caso storico del genere è costituito dalla rivoluzione sovietica, seguita dalla guerra civile e poi degenerata, anche per effetto di questa guerra civile, nel deplorevole fenomeno storico dello stalinismo, che comportò la liquidazione della democrazia di base che si era strutturata mediante i Soviet.

In altri casi, invece, la guerra civile viene attuata per impedire la rivoluzione. E’ questa una delle letture più interessanti del dirottamento delle rivoluzioni arabe avvenuto mediante l’allestimento delle guerre civili in Libia e Siria, con i tristi risultati che sono sotto gli occhi di tutti nell’uno e nell’altro dei Paesi ora citati. E la prematura fine della primavera araba, peraltro determinata anche dal momentaneo prevalere delle forze integraliste in Egitto, poi scongiurato dal colpo di stato militare del generale Sisi.

Per venire a un altro caso dell’attualità, la crisi in Ucraina, che ci si deve augurare non degeneri ulteriormente verso la guerra civile conclamata e la spaccatura del Paese, ha certamente tolto di mezzo un governante corrotto e repressivo come Yanukovitch, ma a che prezzo? E per sostituirlo con chi, se non bande armate di aperto stampo neonazista oggi inserite a pieno titolo nelle forze dell’ordine e governanti non meno proclivi alla corruzione e all’appropriazione dei beni pubblici? E sulla base di un grosso equivoco se è vero, come argomenta lucidamente Alessandro Politi sul Manifesto di ieri, che l’Europa non può e non vuole farsi carico anche del fardello ucraino. Nonché sulla base del ribaltamento manu militari di un risultato elettorale universalmente certificato come genuino, che pone un pessimo precedente per tutto il pianeta.

Prendiamo poi in considerazione un altro caso molto attuale, quello del Venezuela. Si tratta di un caso assolutamente diverso da quelli fin qui enunciati, nel quale assume importanza preponderante il fattore esterno, rispetto a problematiche di ordine interno che pure esistono. Infatti, chi può negare l’importanza dell’intervento statunitense nell’attizzare la violenza dei raggruppamenti nettamente battuti in tutte le recenti elezioni? Un giornale con accettabili standards di obiettività come il Guardian ricorda in un editoriale le centinaia di milioni destinati dalle autorità statunitensi al sostegno dell’opposizione venezuelana negli ultimi quindici anni, e cioè a partire dall’elezione di Hugo Chavez a presidente della Repubblica. Colpiscono anche alcune circostanze, fra le quali quelle, denunciate da un’inchiesta compiuta dalle autorità venezuelane, che l’uccisione di talune delle vittime, chaviste o antichaviste, nel corso degli scontri degli ultimi giorni, sarebbe stata effettuata dalla stessa pistola. Vacua dietrologia? O riferimento alla strategia della tensione che anche nel nostro Paese abbiamo sperimentato in anni poi non così lontani? Lo stesso schema, sparare sulle opposte fazioni uccidendo persone per aumentare il caos, era stato del resto posto in opera al tempo del tentato golpe contro Chavez nel 2002, com’è stato documentato da inchieste particolareggiate.

E’ d’altronde un fatto innegabile che vi siano raggruppamenti di potere, negli Stati Uniti e in America Latina, che non si rassegnano alla perdita delle posizioni di potere e che vorrebbero rimettere sotto la salda tutela di Washington le ingenti risorse energetiche e di altro genere che esistono al di sotto del Rio Grande. Non penso ci riusciranno. Ma, al di là dei calcoli di probabilità e delle simpatie soggettive di ciascuno di noi, penso che sia interesse comune evitare l’ulteriore degenerazione della lotta politica nella violenza. E trovo sinceramente disgustoso che soggetti che magari ritengono giustificata la condanna ad anni e anni di carcere l’azione contro il Tav di giovani che non hanno comunque prodotto danni a persone, si eccitino oggi oltremisura per gli scontri di piazza in Ucraina o in Venezuela. Se ci sono anche ragioni reali dietro la lotta degli studenti in Venezuela, occorre chiedere e fare in modo che tali ragioni si esprimano nelle forme pacifiche e legittime che fra l’altro la Costituzione venezuelana prevede, molto di più di quanto non lo facesse quella precedente all’instaurazione della Repubblica bolivariana. 

Dobbiamo dire quindi no alla violenza e alla guerra civile. Non solo per comunque importanti ragioni di ordini umanitario , ma anche perché, come ho affermato in apertura di questo intervento, rivoluzione e guerra civile sono due fenomeni fondamentalmente antitetici. Io sono nettamente a favore del primo fra i due.

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