Non è più possibile lasciare da parte la necessità di conciliare le scelte politiche e di gestione della polis, della città e della comunità con le leggi della natura. Non si possono, infatti, adattare le leggi della natura alle scelte della politica: la politica permette spesso di costruire sul greto del fiume, sperando forse che l’acqua vada dalla foce alla sorgente. Ma la natura vuole che l’acqua vada dalla sorgente alla foce, scorrendo lungo torrenti, valli e fiumi, e la politica deve pertanto lasciare il greto dei fiumi sgombro da ostacoli, siano essi costruzioni speculative private o strade e ponti pubblici utili, ma costruiti nel posto sbagliato. La natura è la fonte di ogni valore d’uso, e le scelte umane dovrebbero rispettare la natura per soddisfare utilità umane, in modo da ottenere dalla natura le grandi ricchezze che essa nasconde senza alterarne i cicli, o alterandoli il meno possibile: non per amore feticistico della natura, ma perché le alterazioni dei cicli naturali si traducono in violenza contro gli esseri umani vicini e lontani, anche nel futuro.

Le parole chiave dell’ecologia politica sono quindi conoscenza delle leggi della natura, rispetto delle stesse da parte dei governi e dei cittadini, previsione e prevenzione degli effetti che le azioni umane hanno o possono avere sulla natura, anche in termini di costi monetari oltre che umani. Per superare la sordità della politica rispetto ai vincoli che le natura impone, occorre  inoltre dare visibilità e voce ai movimenti sociali, che in tutto il mondo praticano la cultura della alternativa rifiutando la logica capitalista secondo cui la natura è un insieme di input destinate alla produzione di merci da scambiare sul mercato e non un organismo vivente, dotato di una sua autonomia.

Il paradigma capitalista ha invece legittimato il saccheggio e lo spreco di natura e la sua libera appropriazione da parte delle imprese e ai danni delle comunità e delle popolazioni. Le élites hanno così scelto il modello di vita e l’assetto sociale a loro più confacenti, e hanno ottenuto il consenso popolare su queste scelte grazie alle alleanze trasversali come quella tra produttori e acquirenti dell’automobile. Le comunità e le popolazioni locali sono state espropriate delle risorse naturali sulle quali vivevano ed è stato loro impedito di partecipare alla definizione delle scelte che le riguardano.

La crisi attuale, caratterizzata dal dominio della finanza e della speculazione finanziaria, viene spiegata in mille modi senza mai chiamare in causa la natura e il mancato rispetto delle sue leggi. Stenta a diventare chiaro che la Terra non si governa con le leggi dell’economia ma con le leggi della natura. Neanche di fronte al cambiamento climatico, la crisi ecologica è diventata una priorità della politica, che continua a presentare la crisi finanziaria come il baratro in cui bisogna evitare di cadere “costi quel che costi”. Viene così spostata l’attenzione delle popolazioni dai problemi stringenti della loro vita concreta alla questione “astratta” della finanza, che è al di fuori del loro controllo.

Con la globalizzazione neoliberista, tutto è cambiato ma la natura resta ai margini della discussione pubblica e della cultura mainstream, oggi come ieri.  Il paradigma dei beni comuni, praticato dai movimenti sociali e ambientali che in tutto il mondo – incluso i paesi del Nord – lottano contro la recinzione/privatizzazione delle risorse e la cancellazione/espropriazione delle comunità che vivono/usano tali risorse, esprime una cultura basata sulla condivisione, sul legame sociale e sulla auto-organizzazione, ed è governata da precise norme scritte o consuetudinarie, accettate dalla comunità degli “utilizzatori”.

Ricercare l’alternativa – come ci proponiamo e secondo la nostra chiave di lettura – significa diffondere la pratica e la cultura dei beni comuni, allargarne la conoscenza e favorire il concretizzarsi di un ordine sociale alternativo a quello capitalistico oggi dominato dai meccanismi della crisi e dal ricatto del debito.

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