Che la scienza costituisca oggi la principale forza produttiva è una verità talmente evidente che anche il più zotico dei neoliberisti ne converrà senza meno. Una forza in grado di determinare non solo il successo sui mercati e l’output economico di una nazione, ma anche la salute, il benessere e il livello di vita di una popolazione. La diffusione di una cultura scientifica e un elevato livello culturale costituiscono quindi un indice fondamentale per giudicare una data situazione nazionale e rappresentano inoltre, cosa affatto trascurabile, una base essenziale della democrazia, oggi posta in pericolo, fra l’altro, dalla concentrazione delle conoscenze che può accompagnarsi a quella dei redditi e dei patrimoni.

Fin qui tutti d’accordo, almeno si spera. Ma come spiegare, allora, l’enorme perdita di finanziamenti, di strutture e di personale che si sta verificando in Italia negli ultimi tempi, facendo retrocedere il nostro Paese agli ultimi posti delle classifiche dell’Unione europea e dell’Ocse? Una prima spiegazione, risiede, senz’altro, nella scarsa qualità della classe dirigente che, sia per ignoranza congenita che per vocazione alla subordinazione nei confronti altrui, non è mai stata all’altezza delle grandi tradizioni scientifiche e culturali del nostro Paese.

Esemplare da questo punto di vista, la storica affermazione dell’eterno Berlusconi secondo la quale l’Italia non ha bisogno di scienziati perché è in grado di fabbricare delle ottime scarpe. Qualcosa del genere l’aveva detta d’altronde molti anni fa il beone Saragat, tra i principali artefici della sottomissione dell’Italia all’Alleanza atlantica. Per non parlare della stranota boutade di Tremonti sulla cultura che non si mangia. O dell’incredibile vicenda dell’affidamento di un settore strategico come la pubblica istruzione, università e ricerca a un personaggio improbabile come la Gelmini, ascesa a tale incarico per i noti meriti. Ed autrice in tale vesta di un’infame “riforma” i cui effetti deleteri continuano a pregiudicare l’avvenire della ricerca e della scienza nel nostro Paese.

Posizioni rivelatrici di una mentalità che andrebbe per sempre sradicata, ma che a quanto pare è invece molto diffusa nella sfera politica. Posizioni a dir poco criminali che costano un’enormità al nostro Paese, in termini di occasioni perdute per i giovani, costretti ad emigrare, e di accrescimento del debito estero che si nutre come ovvio anche di questa subalternità dal punto di vista scientifico e tecnologico.

Ma forse c’è qualcosa di più, se è vero che anche un economista di un certo prestigio come Zingales si spinse tempo fa ad affermare che non aveva senso per l’Italia occuparsi di biotecnologie, visto che il nostro avvenire risiede nello sviluppo del turismo. Un’applicazione un po’ troppo pedissequa della teoria dei vantaggi comparati che non fa certo onore al combattente contro il declino.

È proprio da circoli “intellettuali” del genere, del resto, che ha origine la nefasta retorica sui centri d’eccellenza che costituisce evidentemente un pretesto per lo smantellamento della rete scientifica con il pretesto che le università (come gli ospedali e tante altre istituzioni inutili e costose) sono troppe. Per non parlare delle truffaldine classifiche degli atenei stilate da questa o quell’altra istituzione più o meno affidabile, che fa il paio con i ranking del debito estero, della corruzione e di altro. Anche queste prese a pretesto, ad esempio dalla succitata Gelmini, per scatenare inammissibili e infondati attacchi alla qualità dell’università e della ricerca italiana.

Nonostante i tagli nei finanziamenti, la ricerca continua a classificarsi fra le migliori in Europa e nel mondo.

E’ stato rilevato come la classe politica tenda a giustificare la riduzione della vitale spesa per la ricerca e l’università prendendo spunto da lacune effettivamente esistenti, le quali anziché essere sanate con un’azione efficace volta ad esempio a contrastare il nepotismo e l’autoreferenzialità di qualcuno, viene assunta a pretesto per affossare tutto il settore. Probabilmente risulta più utile dirottare i soldi su altri investimenti più proficui per le varie cricche, come ad esempio gli F-35 e il TAV, con l’effettto di confermare la posizione sempre più subalterna del nostro Paese nella divisione internazionale del lavoro.

Il tema della ricerca e della sua crisi voluta e pilotata, è stato oggetto di un interessantissimo convegno organizzato ieri al CNR dalla benemerita associazione  Roars, animata fra gli altri da un vecchio leone della ricerca italiana come Giorgio Sirilli, ormai prossimo alla pensione ma sempre valido promotore delle ragioni della scienza. Una battaglia necessaria e urgente per tutto il Paese, sul quale dovranno mobilitarsi, per abbattere le resistenze e le incomprensioni dell’inadeguata classe politica (la quale, direi, andrebbe abbattuta anch’essa a prescindere) i sindacati non corporativi, le forze sane dell’imprenditoria e i giovani del nostro Paese se vogliono un futuro, nonostante la Gelmini e i suoi epigoni abbiano fatto e continuino a fare di tutto per cancellarlo.

 

Articolo Precedente

Scimmia controlla con la mente il suo avatar sedato. Esperimento ad Harvard

next
Articolo Successivo

Rischio e ricerca: se l’innovazione è un deterrente

next