In questo periodo, da molte parti, si sta ripensando il ruolo, il peso e l’assetto del non profit nell’economia del nostro paese. Non a caso, non solo legittimamente ma anche sovente con ragione, vengono mosse alcune serie critiche al mondo senza scopo di lucro (si pensi al libro di Valentina Furlanetto e a quello di Giovanni Moro, che sto leggendo). Tuttavia, anche i suoi critici più severi sono consapevoli di dover scindere le associazioni che lavorano bene sul territorio, con scopi sociali e di interesse generale (e sono tante), dalle istituzioni fine a se stesse o addirittura poco trasparenti nella gestione (purtroppo ce ne sono, e sono quelle che gettano discredito anche sulle migliori).

A questo proposito, vorrei evidenziare un tema serio di cui si parla troppo poco: quello dei costi della struttura, della comunicazione e della raccolta fondi.

Le ragioni della ritrosia a parlarne sono molte e complesse. Innanzitutto si temono critiche da parte dei donatori, che vogliono (giustamente) che le loro donazioni finanzino progetti che facciano stare meglio altre persone, e non sono interessati a pagare sedi o stipendi. Così, c’è anzi una gara tra le associazioni a dimostrare di spendere poco in struttura e pochissimo in raccolta fondi, meno del 30, del 20, a volte del 10%.

Una seconda ragione della reticenza ha a che fare con il diffuso pregiudizio che il non profit (in quanto “benefico”) debba coincidere con il volontariato, e ci si scandalizza se un bravo dirigente è pagato il giusto. In compenso, si predica che sarebbe ora che le organizzazioni non profit si svecchiassero e pensassero come il profit, con l’unica differenza di non dividere i profitti tra gli azionisti.

Ciò su cui non ci si sofferma, è il quesito: di quali associazioni stiamo parlando? L’universo non profit è infatti composto da una miriade di enti differenti, con scopi differenti, con esigenze strutturali profondamente diverse. Se è ragionevole chiedere a una Ong che lavora per portare aiuto nei paesi poveri di ridurre al minimo i costi di struttura, non ha senso, ad esempio, chiederlo ad una istituzione che fornisce cure palliative gratuite alla popolazione di una certa zona. I costi di tale istituzione sono tutti “di struttura”: medici, infermieri, psicologi, fisioterapisti, nonché materiali, farmaci, magari manutenzione di un hospice

Allo stesso modo, un’associazione culturale che propone programmi teatrali, o musicali gratuiti, accessibili quindi a tutta la popolazione ha costi legati a una sede, al tempo degli artisti, a una segreteria, eccetera: anche questi sono costi di struttura.

In modo analogo, oggi si tende, dopo i tagli del settore pubblico, a esigere che il non profit si attrezzi per fare comunicazione e fundraising in modo professionale. Per farlo occorre investire, ma questo investimento non è riconosciuto come finanziabile da nessuno, non dai privati, non da fondazioni di erogazione, e le pubbliche amministrazioni, che sostenevano gli enti “dal punto di vista istituzionale” hanno abbandonato il campo.

Non vedete anche voi una contraddizione in questo atteggiamento? Il risultato di queste politiche condurrà a morte certa molte istituzioni superflue, ma anche tante che avevano una ragione seria di esistere. Cosa ne pensate?

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