Foto dell'anno al WPP - © John Stanmeyer, USA, VII per National Geographic

Tante critiche, tante riserve, tante polemiche suscitò la foto vincitrice del World Press Photo edizione 2013, quanto mi sembra inattaccabile la foto dell’anno 2014.
Tutto molto soggettivo, beninteso. Ma la patina di “finto applicato al vero” – e non c’è nulla di più insopportabile nel fotogiornalismo – che imbellettava quel corteo funebre nel 2013, lascia il posto quest’anno a una fotografia di potenza indicibile.
Una foto che da sola rappresenta una grande lezione e ci dice come e quanto la fotografia, nei casi migliori, sia il luogo insuperato della sintesi tra comunicazione, informazione ed emozione.

L’autore è John Stanmeyer, tra i soci fondatori del collettivo VII, una cooperativa di fotografi che alcuni hanno paragonato a una versione moderna della Magnum.
E veniamo alla foto, ripresa sulla costa di Gibuti, luogo di transito per molti migranti africani diretti verso l’Europa. Alcuni di loro, in una notte di luna, tentano di agganciare un segnale – il segnale – di una invisibile rete (tecnologica) che gli consenta di contattare parenti o amici lontani di un’altra rete, quella della loro vita sociale preesistente.
Non a caso, il titolo della foto è Signal.

La fotografia non è urlata e, al primo impatto visivo, è “molto bella”. Molto bella, per una fotografia di taglio giornalistico, suona se non offensivo perlomeno ambiguo; sappiamo che buona è aggettivo preferito a bella quando una o più fotografie si assumono il compito di narrare e testimoniare.
Il problema, però, si pone solo quando il bello sostituisce il buono, e non certo quando convivono potentemente.
Esiste da tempo un’inesausta diatriba tra chi accusa certi autori di eccessiva estetizzazione degli eventi e chi invece ritiene che solo immagini di forte valenza anche formale possono fissarsi nell’immaginario, altrimenti travolto dall’attuale bombardamento mediatico. Uno dei fotografi ormai cronicamente triturato dagli uni e osannato dagli altri, tanto per fare un esempio, è Sebastião Salgado.

Nella fotografia di John Stanmeyer convivono quasi per magia una rarefatta sospensione e una grande tensione. La composizione è ipnotica, come ipnotica è la dominante monocromatica di quell’azzurrino: del mare sotto la luna ma anche dello schermo dei telefoni cellulari accesi.
Le braccia si tendono verso l’alto, verso quel cielo che tutte le storie umane accomuna. E in quel gesto si può leggere anche uno slancio poetico e ingenuo di chi spera che più in alto sale quell’oggetto tecnologico più “vicina” sarà la voce. Come nella canzone di Lucio Dalla: “Caro amico ti scrivo, e siccome sei troppo lontano, più forte ti scriverò”.

Superato lo stupore e lo spiazzamento visionario intrinseco alla foto, arriva poi la voglia di leggerla sul piano razionale, per il suo contenuto davvero giornalistico.
Dentro l’armonia apparente ora si legge chiaramente il dramma umano, il disagio, la paura e anche, però, la speranza. Un miscuglio di sentimenti contrastanti passa empaticamente dai soggetti della fotografia a chi la guarda, “ipersensibilizzato” abilmente dal primo impatto puramente estetico. Ecco la grandezza.

Sono tre i premiati italiani quest'anno al WPP - © Alessandro Penso, Italy, OnOff Picture

Se poi vogliamo andare oltre, possiamo vederci anche un altro cortocircuito, un tocco di “meta fotografia”, di fotografia nella fotografia.
Brillano, davanti a questo mare che brilla a sua volta, gli schermi dei telefonini. Il messaggio non è arrotolato in una bottiglia galleggiante sospinta dalle onde, ma altre onde, quelle elettromagnetiche, trasporteranno  – forse – il messaggio.
E come sul mare, anche per il Web si usa il verbo navigare.
Di più: oggi in molti continuano ad asserire che l’approccio alla fotografie ai tempi dello smartphone è devastante per la buona fotografia; condivisione, velocità e superficialità, analfabetismo visivo, autoreferenzialità egocentrica, assenza d’idee e di progetti, esserci per esserci, e chi più ne ha più ne metta. Il fotogiornalismo “alto” ucciso da quello 2.0, partecipativo, orizzontale e troppo spesso fuori controllo?

Può essere ma anche no, è un argomento dalle mille possibili letture; di certo nella foto che quest’anno ha vinto il WPP il “diabolico aggeggio” non piega il grande fotogiornalismo ma si piega ad esso diventandone docilmente soggetto.

Signal è una fotografia che racconta solitudini, lontananze, lacerazioni, destini e la sofferta speranza di popoli in cerca di una vita migliore e di un’accoglienza dignitosa; ma che racconta anche un’altra speranza, quella che il ruolo della fotografia come racconto di vite e di storie possa continuare la sua missione.

Twitter: @ilfototipo

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