Ma se a Renzi il Partito Democratico non piace proprio, gli dà pesantezza di stomaco, perché ci sta? Non c’è bisogno di inventarsi interpretazioni letterarie dell’animo renziano per arrivare a una degna conclusione, nel segno di un’onesta schiettezza toscana la spiegazione te la dà direttamente l’interessato: perché gli conviene. È la conclusione per nulla affrettata a cui lo stesso Renzi non riesce a sottrarsi, conclusione che ha (finalmente) consegnato ai suoi possibili elettori (sinistra/destra) quando gli hanno chiesto se l’idea di andare al governo da premier gli facesse capolino nell’anticamera del cervello.

Ma chi me lo fa fare?”, ha risposto allegramente il sindaco, coinvolgendo nella scelta furbo-intelligente il cosidetto popolo renziano: “Sono tantissimi i nostri che dicono: ma perché dobbiamo andare al governo ora? Ma chi ce lo fa fare? Ci sono anch’io tra questi, nel senso che nessuno di noi ha mai chiesto di andare a prendere il governo”. (Modesta nota personale: ma che espressione volgare è “andare a prendere il governo”?)

È comunque benefico che l’incedere progressivo di Matteo Renzi ne disveli le pieghe politiche più profonde e vere, è un cammino magari doloroso ma necessario per tutti quelli che hanno (avranno) l’intenzione di votarlo. Soprattutto quelli che hanno creduto e credono nel Partito Democratico, ai quali quasi quotidianamente il segretario infligge una buona dose di disprezzo (politico). Si diceva, appunto, “la convenienza”, un sentimento osceno se applicato agli ideali, a una storia condivisa, alle passioni che hanno unito (e diviso) nel tempo, un sentimento che Renzi coltiva e padroneggia con la massima serenità, persino con una certa autorevolezza in questo primo periodo di rodaggio piddino. Non ne fa mistero, ti dice in faccia “questo mi conviene, questo no”, sembra un corpo estraneo (e per questo probabilmente vincente) all’interno del partito che lo incoronato senza se senza ma sulla poltrona del Capo.
 
Scrive lucidamente Ilvo Diamanti su Repubblica: “Renzi agisce in proprio, da solo, attento a marcare la propria specificità. Come leader del post-Pd. O meglio (peggio?): leader senza partito. Perché un partito è, comunque, una “parte”, mentre lui si rivolge a tutti. Tutti. Come alle primarie, nelle quali votano non gli iscritti ma gli elettori – reali e potenziali. D’altronde, alla Convention della Leopolda 2013, come in altre occasioni, Matteo Renzi non ha voluto bandiere di partito. Le insegne e i vessilli del Pd. Rottamati. Renzi interpreta la parte del leader im-politico. Perfino anti-politico. Lui, il Rottamatore dei leader e degli attori politici: della Prima e della Seconda Repubblica. Non guarda in faccia nessuno, Destra e Sinistra non gli interessano, tanto meno il Centro. Che non a caso è scomparso”.
 
Proviamo a tirare una conclusione nel segno, appunto, della convenienza. Renzi sta sfruttando il Pd per i suoi (leciti) affari politici. In questo momento gli serve una storia, un popolo, delle passioni condivise come nobilissimo traino. Anche ai sostenitori del Partito Democratico, che soffrono come bestie questa sua alterità, “conviene” Renzi, nel senso che è uno – l’unico – che può farli vincere. Per il momento il tratto di strada è lo stesso e cinicamente uno serve all’altro. Solo che il bastone è nelle mani di Renzi e gli elettori semmai subiscono (attivamente). Non è una differenza di poco conto.
 
Quanto può andare avanti una storia così non-condivisa, condivisa come cane e gatto, in cui il “tuo” segretario ti certifica che gli servi unicamente come volano politico ma delle tue idee, delle tue passioni, di ciò che ti ha formato come soggetto politico, non gli interressa poi granché? Tutti i rapporti che nascono sotto il cielo della “convenienza” sono destinati, prima o poi, a naufragare.
Non è un caso che il sondaggista Noto abbia testato proprio l’addio di Matteo Renzi al Pd, arrivando alla conclusione che un’ipotetica “Lista Renzi” prenderebbe più voti della lista del Pd con Renzi segretario. Dice Diamanti che Renzi “è l’uomo dei tempi veloci in questi tempi veloci”, in cui c’è pochissimo spazio per la storia, le storie e chi ci ha creduto (anche solo un po’).

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