Siamo normalmente abituati a legare il business o l’attività professionale allo sviluppo, per così dire, “fisiologico” dell’attività economica, ma anche quello “patologico” è, nondimeno, fonte di lavoro. E in certe aree, economicamente deboli, anche più di quello fisiologico. Si pensa generalmente alla patologia economica come all’attività di chi si occupa di diritto fallimentare, di accordi interbancari o di ristrutturazione del debito, ma in Sicilia vi sono dei professionisti che, su incarico del Tribunale, amministrano autentiche conglomerate fatte di società immobiliari, aziende, tenute agricole, attività commerciali di vario tipo – sparse per tutto il Paese – del valore patrimoniale di centinaia di milioni: sono le amministrazioni giudiziarie di cui Palermo detiene il primato dimensionale in Italia.

Con la Legge n. 50 del 2010, la gestione dei patrimoni delle mafie è stata assegnata ad un nuovo ente, l’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, attualmente presieduta dal prefetto Giuseppe Caruso, la quale ha sostituito l’Agenzia del Demanio nelle competenze, unificando il procedimento di amministrazione, dal sequestro alla confisca fino alla destinazione dei beni ad Enti pubblici e associazioni oppure alla vendita di quelli non destinabili.

In questi giorni, un’uscita pubblica del prefetto Caruso sulla presunta concentrazione di onerosi incarichi in testa ad alcuni storici professionisti, sembra aver scatenato gli appetiti sia delle categorie professionali (avvocati e commercialisti) che imprenditoriali (Assindustria) assieme agli immancabili intermediari politici, verso il costituendo albo degli amministratori giudiziari. Vent’anni fa non era così: i professionisti non sgomitavano certo per contendersi questi incarichi e ciò dimostra gli innegabili progressi che la lotta alla criminalità organizzata ha compiuto da quando si è occupata strategicamente dei suoi patrimoni.

Oggi è importante non passare da una forma di parassitismo economico ad un’altra solo perché più legale. Per evitare ciò, la regola aurea dovrebbe essere quella di puntare e pretendere risultati socialmente utili perché quella ai patrimoni criminali è certamente una battaglia di principio e simbolica, ma in tempi di crisi finanziaria potrebbe rappresentare addirittura un’opportunità, un’insperata sopravvenienza attiva per un Governo forte che volesse spendere il suo potere. I patrimoni riciclati, in Italia come all’estero, dal crimine organizzato, possono essere considerati come una risorsa parafiscale da utilizzare all’occorrenza per una patrimoniale da imporre ad una minoranza disonesta come parte del gravoso risanamento finanziario del Paese.

Qual è la situazione di questi beni oggi? Mentre l’attività repressiva inanella ogni giorno nuovi sequestri milionari e la liquidità rinvenuta alimenta il Fondo di Giustizia, i patrimoni confiscati continuano a rappresentare più un costo che un’opportunità. Come potrebbero essere invece diversamente gestiti gli immobili residenziali, commerciali e industriali, i terreni, i beni mobili registrati, le quote sociali e le aziende che ne fanno parte? La destinazione ad Enti locali e associazioni no profit “sa di buono”, ma sarebbe preferibile, più pragmaticamente, vendere appena possibile tali asset a prezzi convenienti e rimborsare debito pubblico. Risparmieremmo marginalmente sulla spesa per interessi e potremmo conseguentemente abbassare le tasse e stimolare e incentivare così l’economia sana. E se tali beni cadessero in cattive mani, si ricomincerebbe daccapo. Mentre scrivo, il contatore del debito pubblico dell’Istituto Bruno Leoni segna 2.102 miliardi che gravano e graveranno sulle generazioni presenti e future.

La risposta dei soggetti che subiscono confische è nota e costante: “avvelenare i pozzi”, vandalizzando i beni in modo da dover spendere per ripristinarne la funzionalità in un momento in cui i soldi pubblici scarseggiano e far intendere poi a inquilini, con le buone o con velate minacce, che tali beni devono restare sotto la loro influenza e, soprattutto, non devono “andare in mano agli sbirri”. Pensiamo allora a quanti, tra le forze dell’ordine, vivono nelle regioni a controllo criminale del territorio in case in affitto e al valore simbolico e sociale della presenza di un rappresentante dello Stato in quella che fu una proprietà criminale. Non si potrebbero valutare forme di locazione a prezzo politico, una sorta di fringe benefit, in cambio della testimonianza resa oppure valutare la possibilità che sia il locatario a effettuare a sue spese la manutenzione interna all’immobile al posto dell’affitto, con possibilità di riscattarne la proprietà?

Diverso è invece il discorso relativo a beni aziendali che, salvo il caso della messa in liquidazione, hanno bisogno più di un manager che di un professionista (al limite, di un professionista con mentalità da manager) per continuare a camminare con le proprie gambe. In questi casi più che una burocratica Agenzia, servirebbe un organismo simile ad Fondo di private equity che valorizzasse in modo diverso, con la massima trasparenza e non solo con l’obiettivo della creazione di valore, il patrimonio gestito. Come? Affidando tali aziende a manager privati (ad es. tra i tanti che hanno perso il lavoro) che propongano al Fondo un piano imprenditoriale da condividere. Altre aziende, fabbricati o terreni agricoli potrebbero invece essere affidati a giovani che volessero avviare un’attività di impresa.

Servono professionalità diverse da quelle tipiche della cultura burocratica, professionalità abituate a cimentarsi nel raggiungimento di un risultato utile più che a sentirsi appagate dal rispetto di una procedura formale. Serve creatività e spirito imprenditoriale, ma poiché in questo periodo di crisi le professionalità e i cervelli si sprecano, ecco, ancora una volta, che è questione di sapere ciò che si vuole e di saper osare.

 

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