Ritorno per la prima volta da un viaggio in Israele e cerco di fare una riflessione a caldo, di getto, su Tel Aviv.

Due giorni non sono niente per capire una città ma sono sempre stati abbastanza per me per averne una prima impressione, che di solito matura con le visite successive, e soprattutto per effettuare un confronto importante con ciò che conosco e vivo quotidianamente.

Tel Aviv non è bella, ha edifici diroccati, tratti di lungomare che sembrano non luoghi, piazze sopraelevate di cui non capisci il perché e il per come, una grande maggioranza di negozi bruttissimi che ti possono anche far rimpiangere il glam sempre uguale di certe vetrine cui siamo ormai abituati.

Eppure. Eppure è una città pazzesca. Ogni persona che ne senti parlare non smette di dirti quanto sia figa. Quanto siano giusti, curati nei particolari, avanti anche quando sono retro, una miriade di bar, ristoranti, locali notturni. Quanto la forza creativa di artisti, designer e giovani imprenditori abbia recuperato spazi industriali in disuso e li abbia trasformati in polmoni di cultura e di vitalità.

Good vibes, è il termine giusto per definire quello che vi provi.

Come a Berlino, che piaccia o meno, e a me personalmente non fa impazzire.

E poi, come sempre faccio, penso a noi, in questo caso a Milano, o Genova, le città che mi appartengono e che per questo mi fanno più incazzare, come ancor più mi fa l’Italia in generale. Siamo seduti sulla nostra storia, sul nostro paesaggio, sulle nostre ricchezze. Stiamo facendo ammuffire le nostre passioni e il nostro presente dietro una ragnatela che tiene ferma e incastrata la nostra fiducia.

Dico stiamo anche se non sarebbe corretto, perché i ventenni del 2013 (io ormai ne sono uscito purtroppo!), non hanno le colpe che ha la loro classe dirigente, politici, alti funzionari, banchieri e giornalisti che siano.

Con quale coraggio, signori classe dirigente, andate avanti con i paraocchi e non guardate agli esempi che il mondo offre? Vogliamo capire partendo da certi esempi virtuosi nel mondo che una ripresa, di fiducia prima che di cultura, è possibile? Anzi, che è il momento giusto per farlo.

Facciamo ripartire le nostre città dai giovani. Facciamole ripartire dall’arte, dal design, dalla creatività. Fate in modo che la miriade di spazi inutilizzati dei comuni e delle province possano diventare laboratori di creatività, possano attirare giovani da tutto il mondo che altro non vogliono che avere libertà di provarci, magari senza essere soffocati dalle tasse, la burocrazia eccessiva, la mancanza di merito, ma soprattutto di credito.

Milano ha già delle basi straordinarie per accogliere tutto questo, per far partire questa rivoluzione, basta soltanto accendere la miccia, creare lo shock. Non servono tanti soldi, servono incentivi fiscali ben poco onerosi se paragonati a uno qualunque dei pubblici sprechi, servono semplificazioni, meno burocrazia, serve visione politica. La sacrosanta, antecedente a tutto, visione politica.

La visione di offrire una città ai giovani perché siano loro a dare il la per il futuro, perché siano loro a creare imprese, a diffondere cultura, ad attirare turismo, non i figli di, non le mafie, non chi i capitali già li ha e deve solo moltiplicarli. E sei i giovani sono sempre meno perché il Paese invecchia attiriamone altri dal mondo, dopo aver fatto ritornare i nostri amici che sono scappati a Londra, Rotterdam o Singapore, e aver dato una speranza a chi qui è rimasto a combattere.

Sogno una Milano, specchio dell’Italia, che diventi collettrice di menti, di innovazione, di creatività più di quanto non lo sia. Voglio continuare a godere delle vibrazioni di Tel Aviv, Barcellona, Berlino in vacanza o per lavoro, ma prima sogno di vedere l’Italia sconvolta da vibrazioni nuove, perché la Crisi diventi solo il semplice ricordo di quando tutto ricominciò.

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