Agli Oscar è rimasto a secco: due nomination tecniche per fotografia e missaggio sonoro, film, regia e attori non pervenuti. Shame on you, bacucchi e waspissimi membri dell’Academy, perché A proposito di Davis (Inside Llewyn Davis) di Joel ed Ethan Coen meritava, anzi, invocava un trattamento migliore. Poverini (i giurati). Che hanno pagato i talentuosi fratelli? Semplice, il pregiudizio: Davis è nato, cresciuto e sbocciato sullo schermo – a Cannes 2013, dove pure la giuria di Spielberg gli ha attribuito il Grand Prix – con la nomea di “piccolo film dei Coen”. Che poi così non fosse, tanto peggio: lo showbiz a stelle & strisce l’aveva debitamente etichettato, andava ascritto al B-side di Joel ed Ethan. La previsione l’ha azzoppato, ma non tutto vien per nuocere: il protagonista Llewyn Davis (Oscar Isaac, super) incarna il cantautore folk Dave Van Ronk, uno che ispirò tanti – Bob Dylan su tutti – ed ebbe poco. Insomma, il suo non-biopic gli è fedele: una chicca per chi sa intendere.

Siamo nel 1961, la scena è quella folk del Greenwich Village: Dylan è da venire, ma c’è chi lavora per lui, Dave Van Ronk. Non perdete l’autobiografico Manhattan Folk Story (Bur), che ha ispirato il film: Dave è morto nel 2002, alla damnatio memoriae ci aveva pensato lui stesso, Joel ed Ethan ci hanno messo una pezza di valore. Il sosia Llewyn Davis è un perdente di successo (non commerciale), è molto bravo ma è troppo avanti, non vende, perché non sa, non vuole vendersi. Dunque, si lascia vivere, laddove la gente si spertica per il folk cheesy di Jim (Justin Timberlake, bravo) e Jean (Carey Mulligan, principesca, anche nel turpiloquio), due amici di cui occupa il divano. Non è l’unico: un giaciglio si scrocca a sorelle, professori, mentre la sconfitta esistenziale “guida” tra gravidanze indesiderate, gatti di nome Ulisse (siamo dalle parti di Fratello, dove sei?, con il folk per il bluegrass), vicoli ciechi newyorchesi e on the road direzione Chicago, con al volante il Dean Moriarty di Walter Salles (Garrett Hedlund) e dietro un folk singer eroinomane (John Goodman), che il buco è sempre d’artista.

Ancora una volta, la meta è il viaggio, diversamente da una volta, la tela si disfa e basta, con i Proci (Jim & Jean) si tenta l’amicizia, e l’Odissea frulla club, impresari e il mutismo elettivo di Llewyn: non sa dirsi, non sa comunicare chi è e quanto vale. Eppure, le premesse da dramma piagnone, vittimista e contrito non finiscono sullo spartito: A proposito di Davis ride e fa ridere, non di Llewyn, ma con lui. Se lo spettatore ha le braccia legate né Davis reclama abbracci, l’empatia non è per il personaggio, ma per il mood, la spinta non contro il sistema, ma perché l’alternativa sappia cogliere l’X Factor non davanti alla tivù, ma dal bancone di un club male illuminato, per niente pubblicizzato, dove due metri più in là il nuovo van Ronk suona e canta inatteso.

Utopia? Forse. Necessità? Certo. E allora carta bianca ai Coen, che spiegano le vele ai rovelli artistici e i tormenti autoriali senza magoni poetici, con intenti autoironici e contributi eccellenti: fascinosa fotografia di Bruno Delbonnel (l’abituale Roger Deakins salta un giro, no regrets), scenografia e costumi al top (sembra di essere lì, al Village di 50 anni fa), soundtrack curata dal grande T Bo-ne Burnett (Fratello, dove sei? e, ora, la serie True Detective), con Farewell del menestrello di Duluth e Green, Green Rocky Road di van Ronk. Dylan il suo bel biopic l’ha avuto (I’m not there), van Ronk l’ha ora: l’allievo acclamato e il misconosciuto maestro, pari e patta, il cinema al centro. E Nostra Signora della Perpetua Tombola, così era “intitolata” la scuola di Dave, a vegliare sul suo genio postumo.

Il Fatto Quotidiano, 6 febbraio 2014

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