Cinema

Smetto quando voglio, la banda degli onesti ai tempi di Breaking bad – il trailer

Fidando in una sceneggiatura a tratti esilarante, in personaggi riusciti, scolpiti con tocco notevolmente felice e nella fotografia satura questo omaggio ai generi, alla parodia dei Monty Python e all’inventiva che non teme razzie né accuse di plagio, il 6 febbraio uscirà in più di 250 copie. Il regista: "Nessuna sociologia, volevo solo far ridere per un’ora e mezza"

di Malcom Pagani

La banda degli onesti ai tempi di Breaking bad l’ha girata un ragazzo di Salerno. Ha 31 anni, gli hanno dato il nome di una città australiana e in Smetto quando voglio, ha dimostrato di saper viaggiare. Del suo primo film d’esordio, una commedia eccessiva, “citazionista” e molto divertente, Sydney Sibilia parla con lo stesso stupore dei suoi protagonisti. Viene da un posto che descrive come il West: “A casa mia desiderare di essere regista era un po’ come pretendere di fare l’astronauta” e davanti a una finestra con vista sui tetti di Roma, divorando un riso che gli sembra: “Il migliore che abbia mai mangiato” valuta l’insostenibile leggerezza di avercela fatta. Dopo la proiezione riservata alla stampa, lo hanno applaudito a lungo. Un’ora dopo, mentre gli sguardi dei compagni d’avventura trasudano soddisfazione, si schermisce. Induce i presenti a riti apotropaici. E in controtendenza rispetto a una messa in scena fumettistica, generosa e originale, gioca di sottrazione: “Magari il film va male e tra due mesi facciamo altri discorsi”.

Intanto, fidando in una sceneggiatura a tratti esilarante (bravi Valerio Attanasio e il sosia di Javier Bardem, Andrea Garello, complici essenziali), in personaggi riusciti, scolpiti con tocco notevolmente felice e nella fotografia satura (Vladan Radovici in stile Harmony Korine) questo omaggio ai generi, alla parodia dei Monty Python e all’inventiva che non teme razzie né accuse di plagio, il 6 febbraio uscirà in più di 250 copie.

Un caso. Un evento raro e tutt’altro che scontato. La storia raccontata in Smetto quando voglio sette ricercatori universitari calpestati, sfruttati e fottuti dal sistema che si mettono in proprio, abbandonano le cattedre e invertono il senso irreversibile del precariato utilizzando le conoscenze apprese sui libri per improvvisarsi produttori e poi rivenditori di smart drugs “legali” e non tracciate dai divieti polizieschi, sembrava ardita.

Sibilia ha presentato il progetto a Matteo Rovere (produttore, regista e cercatore di pepite sul web) e Rovere ha bussato a sua volta alla porta di Domenico Procacci trovando in Fandango e in Rai Cinema la giusta sponda per rischiare tra surrealismo, riferimenti al contemporaneo e scorrettezze che sono un soffio d’aria fresca nell’abusata, saccheggiata prateria della commedia. Sibilia sa quel che vuole. Per uno dei suoi attori, l’ottimo Edoardo Leo, ha saputo aspettare sei mesi. Lo voleva e l’ha ottenuto insieme a una squadra di archeologi affamati (Paolo Calabresi), valenti chimici (Stefano Fresi) pronti a farsi traviare da ragazze russe simili a Jessica Rabbit dal nome improbabile (Paprika) e poi ancora, benzinai latinisti che declinano il Sanscrito, laureati che provano invano a farsi assumere negli sfasciacarrozze del raccordo anulare (Pietro Sermonti): “Hai detto diatriba, hai studiato, nun te posso pijà” e isolate ragazze assennate (la bella Valeria Solarino, un po’ Papas e un po’ Bolkan) che alla fine avranno ragione e faranno rinsavire i maschi della truppa, senza che sul film soffi mai l’inquietante bufera del moralismo. E anche un ottimo Neri Marcorè nei panni del banditesco “Er Murena”.

Sibilia ha iniziato presto: “Con una telecamera, a 16 anni e dopo aver coinvolto i miei compagni di classe del Liceo Scientifico”. Dopo un primo cortometraggio: “Corto per modo di dire, durava 50 minuti e descriveva la lotta tra due meccanici per il cuore di una ragazza”, qualche anno alle prese con la matematica e un vero (bel) corto “Oggi gira così”, la formula di Smetto quando voglio gli si è rivelata senza difficoltà: “Abbiamo tagliato in tutto due scene. Quello che abbiamo scritto sul copione abbiamo poi girato”. Sette settimane, una vera produzione alle spalle, qualche sostegno fondamentale nel percorso per non smarrirsi nelle ipotesi (Rovere, Procacci, Laura Paolucci) e ora un film che come accadde con Il caricatore o con La capagira di Piva farà parlare di sé a lungo.

Il giovane Sidney pare conoscere il mistero dell’autoironia. È calciofilo: “Perché come nella Livorno di Virzì, se azzeccavi un congiuntivo di troppo o non giocavi a pallone eri bollato per tutta la vita”, non si prende eccessivamente sul serio: “Nessuna sociologia, volevo solo far ridere per un’ora e mezza” e sulla sua tavola della legge aveva tatuato un imperativo: “Non deludere chi in un momento tragico come questo, decide di tirare fuori 8 euro per uscire di casa, affrontare gli automobilisti incazzati, fare la fila e conquistarsi un posto in sala”.

Quegli 8 euro, giura, continuano ad apparirgli un segno divino. Quindi niente sottotesti pedagogici: “Vade retro” né retorica lacrimosa sul povero debuttante: “Perché credo che nessuno voglia fare beneficenza a un esordiente solo perché è alla sua prima prova. Ho fatto a lungo l’animatore nei villaggi turistici studiando a fondo tempi di reazione e capacità di sopportazione del pubblico. Lo devi rispettare. Quando provi a fregarlo, hai perso in partenza”. Sydney non ha ingannato nessuno. Non potrà più smettere quando vuole, ma a chi sciama felice dopo aver osservato il suo primo film, la notizia non sembra cattiva.  

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