Ci sono in Italia oggi circa 3 milioni e 200 mila disoccupati (12,5 per cento), di questi 1,6 milioni sono disoccupati da 12 mesi e più (Istat), 660 mila sono giovani tra i 15 e i 29 anni: si tratta dell’11 per cento della popolazione di quella fascia di età. Due milioni di giovani non studiano e non lavorano. La questione cruciale non è tanto la riforma delle norme ma come favorire la nascita di nuovi posti di lavoro. Alcuni (il sindacato innanzitutto) pensano che sia ancora possibile aumentare i dipendenti pubblici. Ma siamo in epoca di spending review e quindi la tendenza è semmai quella di una riduzione. Nel 2013 abbiamo avuto una caduta del Pil di circa il 2 per cento e per il 2014 la crescita stimata è solo dello 0,6-0,7 per cento, troppo poco perché ci sia un impatto positivo sull’occupazione .

In quali settori si possono creare posti di lavoro? Ci sono settori ad alta intensità di tecnologia e settori ad alta intensità di lavoro. I primi sono quelli sui quali è alla moda discettare a Ballarò: “Se le imprese italiane fossero come quelle tedesche o svedesi potrebbero creare più posti di lavoro qualificati per laureati e tecnici”, “se fossimo più presenti nei settori science-based ci si potrebbe sottrarre alla concorrenza cinese e rumena”. Questo dibattito si nutre del volume di Enrico Moretti, La nuova geografia del lavoro in America, interessante ma poco adatto al caso italiano.

Per creare settori high-tech competitivi ci vuole tempo, almeno quindici anni. Oggi siamo lontanissimi (come industria e come ricerca italiana) dalla frontiera tecnologica in tutti i settori che contano, dall’informatica, alla biotecnologia, ai nuovi materiali. Si potrebbe attirare qualche investimento straniero ma fatichiamo anche a tenere in Italia gli investitori già attivi, come mostra il caso Electrolux. Servirebbe un piano shock: scegliere alcune aree, possibilmente dove c’è un dipartimento universitario di eccellenza (quasi tutto il Sud sarebbe eslcuso), definire “regole speciali”: semplificazione amministrativa, sportelli per le imprese, scuole in inglese, taglio del cuneo fiscale. Siamo in grado?

Quanto conta la tecnologia 

Parte rilevante della disoccupazione (in tutti i Paesi avanzati) è legata all’introduzione di nuove tecnologie che consentono di risparmiare lavoro. Non sempre la tecnologia penalizza solo i lavoratori a bassa qualificazione. Oggi è molto più facile automatizzare il lavoro di un contabile, di un cassiere di banca e di un operaio specializzato piuttosto che sostituire con robot o computer i giardinieri, i barbieri, le babysitter, gli addetti alle pulizie, i tassisti, le infermiere. In molti casi le nuove tecnologie per essere sfruttate richiedono lavoratori molto qualificati, ma ci sono tantissimi lavori a bassa qualificazione che comportano funzioni di spostamento, di valutazione, di coordinamento delle azioni che non sembrano risentire del cambiamento tecnologico.

Nel passato l’industria manifatturiera creava posti di lavoro. Ma questo non accade più da 30 anni. Su circa 23 milioni di occupati, l’industria manifatturiera ne vale meno di 5, i servizi invece circa 16,5 milioni. Dall’Ilva agli elettrodomestici, dai pneumatici all’automobile, i grandi gruppi dimagriscono o chiudono. I dati Ucimu (associazione dei produttori di macchine utenti e macchinari) mostrano che sono calate le vendite di macchinari industriali: le imprese stanno risparmiando.

C’è un grave problema di domanda insufficiente (consumi e investimenti) in Italia ma non è detto che la ripresa porterà occupazione nell’industria. Nei Paesi avanzati la manifattura può continuare ad avere un ruolo ma è un ruolo di qualità e non più di quantità: si faranno alcune parti di prodotti complessi, si produrranno sistemi intelligenti che poi verranno inseriti in prodotti fatti in altri paesi. Ma i numeri sono piccoli.
Dobbiamo allora ragionare su quali settori creino nuovi posti di lavoro, in un paese come l’Italia, non nella California di cui parla Enrico Moretti.
Ci sono attività terziarie che possono occupare persone con istruzione medio-bassa (la gran parte dei disoccupati). La grande distribuzione commerciale o i servizi alla persona, dalla cura allo sport. Qui serve semplificazione e liberalizzazione degli orari. Nel turismo e nella ristorazione bisogna ammodernare l’offerta, fissare standard di qualità, favorire le catene.

É il terziario il settore ancora capace di creare posti di lavoro e aziende medio-grandi. Vi è poi il ridisegno del welfare e dei servizi pubblici e la possibilità di affidare molte attività ad aziende private. In particolare a società cooperative di giovani: assistenza, asili, trasporti, istruzione. Nei paesi anglosassoni stanno avendo un grande sviluppo le Chartered School: scuole che assomigliano a cooperative private nelle quali le famiglie dei ragazzi possono contribuire alla gestione e al finanziamento. Nel terziario avanzato vi sono tante attività ad alta qualificazione che ora possono essere svolte fuori dalle imprese da professionisti, singoli o in società. É un settore che va difeso e rafforzato.

Il Fatto Quotidiano, 29 Gennaio 2014

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