L’eterogenea moltitudine di scuole di psicoterapia tende spesso a trascurare due aspetti fondamentali: l’attuale situazione sociale, che dovrebbe condurre la psicoterapia verso una maggiore “accessibilità”, economica, organizzativa, culturale e professionale, e lo sviluppo delle neuroscienze che propongono una visione meno rigida dell’annosa dicotomia cartesiana fra corpo e mente.

Ne consegue che la sofferenza mentale risulta sempre riconducibile ad un complesso gioco di fattori concreti e fantasmatici: biologici, psicologici, familiari e sociali, che si influenzano, si adattano e si regolano reciprocamente e continuativamente nel tempo, in un vortice senza continuità che modella, per ognuno di noi, un equilibrio unico. Risulta allora illusorio immaginare un unico fattore responsabile della sofferenza, da curare con un rimedio “forte” e specifico, secondo la logica deterministica della scienza positivistica. Lo psicoterapeuta può solo “sintonizzarsi”, allearsi, accostarsi, nel suo essere persona e professionista, al “sistema paziente“, che può comprendere anche la famiglia e il contesto, per costruire, con una partecipazione più condivisa possibile, un più complesso “sistema terapeutico”, che attivi nuove esperienze relazionali che portino ad un maggior benessere oggettivo e soggettivo.

Per questo ogni psicoterapia, al di là delle “tecniche”, che possono di volta in volta essere utilizzate, non può che essere uno scambio profondo fra due o più soggetti in relazione fra loro. Se ogni persona/situazione è unica, anche ogni terapia deve esserlo e il terapeuta, dovrebbe selezionare dal proprio bagaglio professionale di volta in volta le modalità di aiuto più opportune per un determinato paziente, tenendo presente la gerarchia dei fattori che prendono il sopravvento nell’influenzare il malessere.

Niente di nuovo sotto il sole, già nel 1968 Ludwig von Bertalanffy creava la “Teoria generale dei sistemi” e, nel 1977, George Engel formulava su Science il “modello biopsicosociale” con la speranza di superare una medicina esclusivamente biologica. Nonostante la grande fortuna intellettuale e scientifica che la sfida alla complessità si è conquistata, la sua ricaduta nel modo di concepire la cultura e più che altro la prassi psicoterapeutica, è stata veramente deludente.

Credo che la responsabilità possa essere attribuita all’impianto formativo per diventare psicoterapeuti. Già nella formazione universitaria vi è una scissione profonda fra corpo e mente come logica conseguenza dei corsi di laurea in medicina e psicologia, molto diversi fra loro nel modo di percepire la relazione di aiuto. Poi le scuole di specializzazione, quelle in psichiatria a numero chiuso e pagate dallo Stato, quelle in psicoterapia, a numero aperto e, nella stragrande maggioranza, private. Paradossalmente processi formativi così diversi abilitano a svolgere lo stesso lavoro di psicoterapeuta, portandosi ognuno le carenze della propria specifica identità. La psichiatria sembra sempre più affascinata dagli psicofarmaci come risposta principale a qualsiasi tipo di sofferenza, mentre le scuole di specializzazione in psicoterapia, frequentate quasi esclusivamente da psicologi anche se aperte ai medici, per sopravvivere devono contendersi una nicchia di mercato, magnificando in modo autoreferenziale le proprie virtù, accentuando così rigidamente e artificiosamente la divisione dalle altre scuole, come a rispecchiare una visione paradossale di una mente organizzata in compartimenti stagni.
Manca poi nell’attuale piano formativo la possibilità che il futuro psicoterapeuta possa sottoporsi, se non su sua scelta e a proprie spese, a una psicoterapia personale. Il risultato è che la cosa più difficile con i giovani psicoterapeuti è, per dirla con le parole di Daniel Stern, “aiutarli a dimenticare quello che hanno imparato”, che rischia di diventare, più che un ponte, un ostacolo fra sé e l’altro. 

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