Obama va da solo. Dopo cinque anni di scontri continui con i repubblicani, il presidente degli Stati Uniti ha esposto nel suo discorso sullo Stato dell’Unione un piano di riduzione delle diseguaglianze da realizzare a suon di decreti, senza passare dal Congresso. “Sarà un anno di azione”, ha promesso Barack Obama, spiegando di essere “desideroso di lavorare con tutti voi”, deputati e senatori, ma aggiungendo anche che “l’America non resta immobile, e non resto immobile io”. Nel complesso il discorso segna una svolta nella fisionomia politica di Obama: da presidente bipartisan, che mette d’accordo l’America democratica e repubblicana, bianca e nera, gay ed etero, a leader costretto a prendere misure radicali di fronte all’inazione della politica.

Un anno difficile – Il discorso sullo Stato dell’Unione 2014 arriva in un momento drammatico della presidenza Obama. Per la prima volta dalla sua salita alla Casa Bianca, nel 2009, almeno il 50 per cento degli americani disapprova la sua performance (sondaggio Washington Post/ABC News del 26 gennaio). La riforma capitale di questi anni, quella sanitaria, ha avuto un avvio disastroso. Su una serie di temi qualificanti – immigrazione, legge anti-armi – Obama non è riuscito a concludere praticamente nulla. La lieve ripresa dell’economia e i progressi nell’occupazione non hanno avuto effetti decisivi sulla sua immagine e Obama rischia di passare i prossimi tre anni alla Casa Bianca come una sorta di ospite tollerato e poco rispettato.

L’attacco alle diseguaglianze  Di qui l’alzata di testa del presidente e il deciso mutamento di strategia. Non più riforme profonde da realizzare attraverso l’accordo di democratici e repubblicani, ma una serie di interventi più limitati e decisi, indirizzati soprattutto ad attenuare le diseguaglianze crescenti. “Quelli in cima alla scala non sono mai andati meglio” ha detto Obama, “ma gli stipendi medi non si sono quasi mossi. E la mobilità sociale si è fermata”. Per ovviare a una società sempre meno giusta, il presidente ha annunciato una lista di ordini esecutivi, che non richiedono quindi il voto del Congresso. Tra questi, l’aumento dei minimi salariali da 7.25 dollari a 10.10 all’ora per i dipendenti federali; la creazione di un piano pensionistico privato sponsorizzato dal governo; il completamento di un progetto per connettere sempre più scuole pubbliche alla Rete.

Lo staff della Casa Bianca, in queste ore, è stato molto attento a sottolineare la novità politica del ricorso da parte di Obama ai suoi poteri esecutivi. Il presidente l’aveva già fatto in passato – bloccando la deportazione di giovani immigrati senza permesso di soggiorno o rafforzando la regolamentazione ambientale – ma mai con questa forza. Obama è anzi stato sinora un presidente che non ha mai amato governare per decreto: in cinque anni ha firmato soltanto 168 ordini esecutivi (George W. Bush ne firmò 173 soltanto nel primo mandato; Bill Clinton 200).

I critici hanno comunque già fatto notare i limiti dell’approccio di Obama. Un aumento del minimo salariale votato dal Congresso interesserebbe circa 17 milioni di lavoratori, con altri 11 milioni che potrebbero beneficiare di una sorta di indicizzazione dei salari all’inflazione. La mossa di Obama riguarderà invece soltanto quelli impiegati su progetti federali nuovi o rinegoziati e alla fine potrebbe coinvolgere soltanto poche migliaia di persone (stime dell’Economy Policy Institute, un gruppo liberal).

La scelta della “forza” Ma in questo momento le cifre valgono meno dell’impressione di decisione, fermezza, autorità che Obama deve trasmettere ad amici, nemici e soprattutto a un Paese che non sembra credergli più con la fiducia del passato. La stessa decisione Obama l’ha mostrata quando ha chiesto che si arrivi a una legge organica che regolarizzi i 12 milioni di immigrati che vivono, lavorano, studiano negli Stati Uniti senza un permesso; o quando ha difeso con puntiglio la sua riforma della sanità, citando il caso di una donna dell’Arizona, Amanda, sottoposta a un’operazione di urgenza il giorno dopo aver firmato per l’Obamacare: “Se non l’avesse fatto, ora sarebbe rovinata economicamente”, ha detto Obama.

Il momento più teso ed emotivo della serata è venuto quando, a fine discorso, Obama ha citato il caso del sergente Cory Remsburg, svegliatosi dopo mesi di coma per una brutta ferita in Afghanistan. “Come l’America che ha servito, Cory non molla e non abbandona il campo” ha spiegato, mentre deputati e senatori, tutti in piedi, applaudivano. In politica internazionale, Obama ha quindi annunciato il ritiro definitivo dall’Afghanistan (resterebbe soltanto un contingente con compiti di antiterrorismo e training delle truppe afgane) e ha chiesto al Congresso di non approvare nuove sanzioni contro l’Iran prima della firma di un accordo multilaterale sul nucleare di Teheran.

La risposta dei repubblicani – I repubblicani hanno già risposto con almeno tre interventi (tutti ovviamente critici): uno, ufficiale, della deputata Cathy McMorris Rodgers; uno del senatore Mike Lee a nome degli attivisti del Tea Party; e uno di un altro senatore con ambizioni presidenziali, Rand Paul, di stampo libertarian. Il proliferare delle risposte ha mostrato che, se Obama non gode di una eccezionale salute politica, anche i repubblicani non stanno benissimo. Il partito è diviso, incapace di trovare una linea comune, spesso proteso a dire unicamente dei “no”. Non una buona premessa, in vista delle elezioni di midterm 2014 e poi delle presidenziali.

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