La grande bellezza vince il Golden Globe come miglior film straniero ed è candidato agli Oscar. Ottima notizia per il cinema italiano. C’è da esserne felici.

Questa ambizione, però, che fallimento, questa ambizione grottesca di essere un film artistico.

Nessuno scrittore mai direbbe, se non aspirante scrittore di sedici anni, quello che dice Jep Gambardella: “Ero destinato alla sensibilità”. E che cos’è questa grande bellezza? Dove va a lambire quello che dovrebbe fare l’opera d’arte, e cioè l’universale? Dove può dirsi universale La grande bellezza? Nella solitudine di Jep Gambardella? Nel suo sguardo vuoto ma scintillante? Nel suo incontro con Sabrina Ferilli?

Si dice che sia un bel film perché descrive bene le terrazze romane. Si dice che sia un bel film perché quel mondo, se l’hai conosciuto, lo rivedi identico lì nel film. Non è Quark di Piero Angela. Un capolavoro non deve fare questo.

Sono universali le danze su quelle terrazze surreali?  E’ universale lo schiavismo a cui è sottoposto, dalla sua donna, Carlo Verdone? E’ universale l’ascesa dei fenicotteri sul balcone, disegnati come fossimo in Chi ha incastrato Roger Rabbit? Giunge una persona, la spirituale, la Santa: è lei che potrebbe portare la rivelazione. La frase, iconica, che riesce a dire è: “Le radici sono importanti”.

Il film finisce. Lascia poco. Si lasci pure stare il riferimento alla Dolce Vita, che era un film non sulle terrazze romane, ma sulla devastazione interiore.

Questo invece è un film di ambizione alta, e di riuscita tutta grossolana, tutta surreale, di prospettiva tutta sfocata, e non per lo sfocamento tipico dell’arte, che rivela e ingenera cortocircuiti, ma di uno sfocato errato e basta, al di là appunto, di questi sociologismi, che taluni ancora credono pezzi di bravura, quali quelli per cui le terrazze romane sono davvero ben rappresentate.

 

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