Mylar
di Gianluca Garrapa

 

Primo giorno

Ramon? Ramon come? dice il primo poliziotto.

Ramon senza cognome, rispondo.

Ramon senza cognome, lo sai che non sta bene mangiare il corpo di un essere umano? Dice il poliziotto che già m’ha preso in simpatia.

Io rispondo che, sono risentito dal fatto di trovarmi lì senza una ragione, che si tratta di sicuro di un errore madornale come tanti nella giustizia italiana.

Sia come sia, di punto in bianco mi ritrovo in questa strana cella di un carcere psichiatrico dove, avete presente Hannibal Lecter? Ecco, così: sto qui, è semibuio, e mi costringono a raccontare la mia storia a un amanuense che sta seduto, lì

Certo, un amanuense, vestito trecentesco coi gadget del trecento, tutto del trecento, o forse è vestito diverso o forse non c’è affatto, ma questi, infondo, sono particolari.

Insomma, io parlo, lui scrive e loro studiano. Mi studiano ma non ci capiranno niente.

Io, qui? perché? ripeto, non lo so, o non lo ricordo, e non c’è più nessuno che guidi la mia esistenza. Loro mi osservano. Indossano una divisa. La mia divisa è diversa. Quelli che mi studiano indossano dei camici bianchi. Loro? Chi sono? Non so nemmeno questo.

Boh! Soltanto questo, un Hannibal Lecter, insomma. Come se aspettassi una donna a forma di Jody Foster e la storia mi permettesse un piglio ironico e\o televisivo o forse è proprio Lei che

Insomma dicono strane cose su di me, che sono un cannibale seriale, un violentatore e cose del genere, di cui non ricordo nulla, prima d’ora vivevo con mia nonna, poi è morta, un orfano, uno sfigato che nessuna donna ha voluto come metà di un cuore

avrei divorato una donna, sarebbe a dire mia moglie, le gemelline, ma io davvero non dico di essere innocente, di più

perché non ricordo d’aver mai avuto una moglie delle figlie e le solite cose normali e desiderabili per qualsiasi uomo, magari!

L’amore a me non ha mai spalancato le braccia, mai.

Boh! Sia come sia, mi studiano, ma non ci capiscono nulla e io non capisco cosa vorrebbero capire, ma la voce della nonna mi soccorre, è morta per l’ultima volta quando io avevo non ricordo che età, di sicuro non ero maggiorenne, insomma la nonna mi dice: lasciati studiare, studiano se stessi, e tu non sei come loro, e iniziava il suo solito bla bla blacan dopo essersi rimpinzata d’eroina.

Cioè, non proprio mia nonna, la sua vocina di fantasma auricolare, di voce oltremondana,

Il primo ricordo → io steso a leggere la psicopatologia di un certo Jaspers senza capirci nulla, la nonna m’interroga solo per sapere quanta informazione dimentico, è gonfia di roba, eroina, acidi, roba del genere oppure, se è periodo di pulizie e pranzi spaziali pseudo-matrimoniali ingolla anfetamine, coca, tisane di marijuana rinvigorenti e via di seguito, tutti i giorni, tranne il sabato e la domenica, ma soprattutto il sabato, l’uso di droghe si limita agli oppiacei, è il giorno della quiete mentale e per me di lettura: testi di varie discipline di cui bisogna scordare il maggior numero di informazioni possibile e lei è seduta, col gatto in braccio, gatto grosso e morbido a forma d’orsacchiotto che la copre tutta, gattone che una volta lecca per sbaglio lo speedball della nonna e che si mette a ballare, sdoppiato, come i Blues Brothers, quando la nonna è morta per la sua ultima volta la gattona è morta d’overdose e l’ha seguita alcuni giorni dopo. Questo è il primo, e uno dei pochissimi ricordi: lei seduta a guardare la Viktoria Cabello.

Odia la moto e la formula uno, non li ritiene dei veri sport, anzi biasima gli idioti che stanno lì per due ore a vedere delle moto e della auto girare in tondo, e fare sempre lo stesso giro, e inquinare l’aria, e soprattutto, idiozia dell’idiozia, vedere questi giovani morire e diventare pure degli eroi. Mah! Cose che nonna non comprende.

Questo me lo ricordo.

Un altro ricordo certo che ho → un dispositivo simile a un registratore portatile che serve a mettermi in comunicazione con il mio analista, nei momenti di emergenza, dopo la morte di nonna sono rimasto tecnicamente da solo, senza più i suoi consigli e d’altra parte tutti gli assistenti sociali che mi affidano, finiscono per andarsene esasperati, disorientati, spesso costretti ad entrare in analisi per superare quello che a loro parere è un disturbo post-traumatico da stress di cui io sarei la causa, ne hanno ben donde.

Me lo ricordo bene → registro la mia voce, i miei monologhi, sul piccolo registratore e lo invio col collegamento internet alla Guida Suprema, cioè il registratore digitale collegato al computer del mio analista, che tra l’altro non ho mai saputo come fosse fatto, o forse sì e me lo sono scordato, chissà.

Chiedo alla nonna perché se li è mangiati. Cioè, perché in generale si mangia gli esseri umani? E lei risponde che li amava troppo e amare vuol dire divorare. E allora, faccio, tu non mi ami? E la nonna mi risponde che non sempre per divorare bisogna masticare, ingoiare e digerire. Non sempre. Io, invece, non sempre la seguo nei suoi discorsi, perché certe volte non ha nemmeno la dentiera e sta anche fatta di droga, e insomma lei, biascica con la testa sbavante sul petto, propala cose, parole, flussi di significanti. Non ci capisco mai nulla, lei è inaudibile, eppure l’ascolto benissimo.

L’amanuense sta curvo dentro una cocolla e minia con una bella penna d’oca un paginone di glifi e intarsi dorati.

La nonna aveva circa sessanta anni, quando ha ripreso a farsi di roba, di eroina, se la procura quando non ha anfetamine, perché tra l’essere agitata per nulla, e il non esserlo a fatto anche se vedi la morte, è meglio la quiete dello sballo, dedicarsi alla faccende quotidiane, lessare le verdure, prendersi cura del gattone. Più di una volta, chiedo alla nonna che fine abbiano fatto i suoi figli, cioè mio padre e mia madre con tutti i fratelli acquisiti e sorelle, e lei mi ripete con assoluto candore: Li ho mangiati, bambino mio; e smetto di ascoltare le sue fandonie da vecchia allucinata e annuisco soltanto quando dice che la favola di cappuccetto rosso non c’entra per nulla, era un gesto d’amore, il suo.

 

1.
giovedì, 11 maggio 2006

era una mattina densa di pioggia.

E anche la mattina che la nonna era in overdose e io chiamavo e loro non ci credevano, vieppiù che la mia voce bambina non poteva essere altro che foriera di menzogna e bambinata e allora loro, mentre mia nonna era in coma da mezzora, loro non ci credevano e gli ho detto che avevamo finito il naloxone e mia nonna si era strozzata e per questo è caduta e ha battuto la testa, e sanguinava e stava morendo per sempre e loro a ridere, ma come per sempre, perché si può morire ogni tanto? Insomma alla fine ho pianto e ho detto che loro sarebbero stati i responsabili della sua morte.

L’amanuense con un secco colpo di tosse attira la mia attenzione e mi chiede se non abbia capito male prima, quando ho detto che: “La nonna è morta per un banale incidente casalingo, cioè battendo la testa scivolando su un grandino, adesso dici che è morta d’overdose. Ecco, quale delle due?”

Rispondo secco come il suo colpo di tosse, e dico: “Scrivi che l’overdose ha permesso che cadesse e battesse il capo, ma non scrivere il contrario, ché morire d’overdose dopo aver battuto il capo è quasi impossibile.”

Sia come sia quella mattina pioveva e la nonna l’ho vista per l’ultima volta nella bara, che per me era di cristallo, e poi a tratti mi scordavo per chi stessi piangendo a tratti ci rimanevo male perché nessuno mi aveva creduto e la nonna è morta e per questo ho scordato che lei è morta, che lei è lei, non mi hanno creduto e la nonna poteva salvarsi, mi hanno offeso, ecco, però la sua voce mi è rimasta dentro.

Dopo la morte della nonna non ero del tutto da solo, infatti da quel momento ero sempre in compagnia d’una famigliuola microptica: mamma e babbo erano apparsi alcune ore dopo la morte della nonna. Io avevo scordato che la causa della morte erano quegli uomini al telefono che non mi davano retta, davvero, poteva salvarsi e adesso non sarei qui dentro, e oltretutto non saprei con chi vendicarmi perché non ricordo assolutamente il nome dei tizi che l’hanno lasciata morire, spettegolavano, anche, questo soprattutto i vicini, pregiudizialmente, insinuando che la morte se l’era andata a cercare.

Quel giorno pioveva e Ramon aveva deciso di fuggire. O almeno l’intenzione doveva essere quella. Per quanto alcun bagaglio fosse stato preparato. Sedeva. Senza fare nulla. Quel Ramon che ero. Scordandosi momento per momento il motivo per cui avrebbe dovuto fuggire oppure restare. Aveva scordato pure la lieve differenza tra partire e rimanere.

Quella mattina, tuttavia, sapevo il motivo per cui dovevo fuggire, sebbene in questo momento non lo ricordi, ma c’è questa grossa lumaca a un certo punto, il profilo, l’ombra attraverso la tenda davanti la portafinestra metà chiusa metà aperta sul balcone. Si avvicina, sposta un lembo della tenda introducendo mollemente il corpo viscido al disotto del tessuto colorato a rettangoli bicolori alterni bianco-azzurri e gialle con strisce di colore scuro verticalizzato e sobbalzo di paura, ovviamente, perché già ti potrebbe fare strano vedere un cagnolino gigante, oppure un bonsai alto una sequoia e mezzo, o uno gnomo di un metro e ottanta chegattona vestito bondage, ecco mamma, enorme che sbava bisso e si lascia dietro un tappeto broccato di bava.

Mamma, scusa, a volte mi scordo che esisti e oltretutto non ricordo più per quale motivo ma oggi dovrei in pratica fuggire.

Ecco, appunto, mettiti una mano sulla coscienza e pensa a quando i tuoi figli si scorderanno di te. E ora lasciami entrare.

Ti offro qualcosa? Una foglia di lattuga? Vado a prendertela. Comunque non capisco perché tu finga di essere tanto reale, non lo sei!

Sì, giusto un assaggio e poi scappo via. Vieni a pranzare da noi?

Dalla cucina mi sforzo di urlare sì ma in cuor mio in questo momento di tutto avrei bisogno tranne che di pranzare a casa dei miei.

Quando torno in camera, mamma non c’è più. Mi siedo e mi sgranocchio l’enorme foglia di lattuga che ero andato a prendere per lei.

Mi ci è voluto un po’ prima di abituarmi alla mia famigliola. Già, mi chiederai come sia potuto accadere di avere a che fare con una famiglia reale in forma ologrammatica, e ti risponderei che non saprei darti una risposta. Te lo spiegherò dopo il come e quando mi è successo di vedermi parte di una famiglia reale in forma ologrammatica. Probabilmente è stato l’unico modo che avevo per colmare i buchi della mia famiglia immaginaria in forma reale che la buona nonnina s’è mangiata quando io avevo tre o quattro anni.

L’amanuense scrive e tutto diventa metatestuale.

Ramon dice che ascoltare musica serve, la musica prima di tutto serve all’esigenza immediata di distacco dal mondo, e dunque sia maledetto l’mp3 per aver iniziato a diseducare l’orecchio all’ascolto e l’occhio alla meditazione ultrasonora.

La nonna, fin dall’inizio, aveva capito tutto → Kurt Cobain fu costretto a morire fingendo un suicidio, tutte le morti dei grandi artisti che hanno detto o insinuato qualcosa di realmente scomodo, sono poi spariti in modo archetipico.

Quando finivo di elaborare e capire le cose che leggevo, quando me l’ero scordate e digerite, la nonna ritornava in sé, sballata più che mai con gli occhi a spillo che sembravano radiografarti i processi mentali, la nonna godeva, si grattava, sorrideva, dormicchiava, beata lei, perpetuamente giovane e strafatta, niente da dover dare più al mondo, niente da chiedere, tranne il mio affetto, è chiaro, nulla del mondo.

La nonna, quando le chiedevo perché continuasse a farsi, mi rispondeva pacatamente che era grazie a sua madre che ha iniziato a farsi, ero una ragazzina, proprio come accadde al cantante dei Red Hot Chili Peppers, che all’epoca non sapevo chi fossero. Il padre del cantante dei Red Hot Chili Peppers iniziò il figlio all’eroina facendogliela provare in vena. Quando era ancora un ragazzino.

Io non ci capivo nulla, e se qualcosa comprendevo ci rimanevo secco, per dirla all’americana.

 

2.
sabato, 13 maggio 2006

non c’è nulla che valga la fragilità del presente. scordare significa che il presente il passato e il futuro stanno in un pugno.

Certi giorni capitava → svariate Heineken da 66 nel sacchetto della coop le bottiglie acciottolio di vetri verdi tintinnano la plastica stride il suo crackling noise – disposizione delle particelle congelate in un disordine irreversibile.

le scale per scendere e per salire.

il pomeriggio. il rumore della carta mylar. la carta delle caramelle o quella delle patatine. la superficie plastica del reale scricchiola. crepita.

crack crack.

oggi non piove. l’aria è molto più fresca di ieri. iniziavo a bere per distrarmi e sottrarmi a ogni possibile progetto. per poco non fuggo.

L’amanuense trascrive tutto anche quando gli pare che mi stia rivolgendo a lui, non mi sto rivolgendo a lui, credo. Lui ha comunque accettato il gioco, anche se non ha capito se sia realmente un amanuense del trecento o un ologramma della mia mente, non sembra fregargliene più di tanto, comunque, gli piace stare con me, e me lo ha pure detto che per lui lavorare con pazienti del genere gli piace troppo.

“E perché?” faccio io

“Perché non sei cattivo, nonostante tutto. Non so come spiegare. E non sei pazzo nel senso letterale del termine, però, insomma essere rinchiuso in un carcere psichiatrico la dice lunga sul tuo passato. Non ho mai conosciuto un pazzo tanto ingenuo come te.”

un attimo di silenzio, non ricordo perché. poi riprendo a raccontare e l’amanuense a trascrivere.

 

la fuga 1

sono ubriaco alle cinque del pomeriggio. il sole è un neon che invita gli insetti diurni a sbattere il muso contro le insegne della notte.

bere fino a stare male. verso sera, quasi sempre, vacillare per strada. in un vicolo cieco. mi guardo le spalle. sento il fiato sul collo certo di essere inseguito da qualche grossa bestia o qualcosa del genere. non c’è nessuno. non c’è anima viva e nemmeno anima morta. molta conoscenza significa molto dolore.

La nonna mi diceva: “Più scordi più sai, meno hai e più sai.”

Prima di morire l’ultima volta, mia nonna era morta altre volte, e ogni volta, quando resuscitava, mi raccontava qualcosa di nuovo, di strano, mi prevedeva il passato come fosse un futuro, ma per me restava fondamentale sapere come era potuto accadere che lei si fosse mangiata i miei genitori e perché permettono che tu ti droghi, e lei rattoppa delle parole, parlare di droga e cannibalismo la disturba, mi dice risentita: “Ora non mangio, quando ero cannibale fumavo solo erba, buonissima, che dava una fame mostruosa, ma non ti preoccupare, in un modo o nell’altro si faranno vivi anche da morti i tuoi genitori, se davvero ti vogliono bene, e comunque, a suo tempo capirai il perché e forse avrai anche il tempo di ricominciare daccapo.”

Io non ci capivo tanto, eppure il mio cervello iniziava a costruire difese, ponti levatoi, fortezze stracolme di me, e una realtà realmente parallela mi si formava attorno per sostituire la mancanza della mia famiglia ridotta ormai a sterco.

Anche io volevo morire e tornare a vivere, sapere altre cose senza doverle leggere e dimenticare, la nonna a volte sveniva che era vestita in un modo e dopo alcuni minuti iniziava a mutare, a cambiarsi d’abito come in un video musicale che non ricordo il nome, e per esempio sveniva che era una nonna-massaia e si svegliava che era nonna ben agghindata appena arrivata in chiesa, una volta, si era svegliata da uno dei suoi coma e mi aveva scambiato per Dio, e io, cogliendo la palla al balzo, dico che probabilmente Dio è un bambino che deve badare alla sua nonna tossica, oppure, ha detto lei, un bambino che costruisce castelli di sabbia sulla riva del mare a bella posta, per farseli atterrare dall’onda e io ho capito che lei ci stava con la testa ed era una persona affidabile, più moriva e più sapeva, più sapeva e più fermava il tempo. Credeva in Dio, nonostante i cattolici. Il suo tempo, però, non il mio. Per lei Dio era solo una dimensione altra.

Un giorno, prima di cena, lei mi aveva fatto un indovinello che avrebbe riguardato la mia vita e che avrei risolto, aveva detto, solo se un giorno avessi avuta la capacità di morire almeno due o tre volte di fila. L’indovinello → Ramon si distende in lungo e largo dentro un letto fatto di vetri verdi. Perché?

Dopo alcune ore che stavo lì a scervellarmi, ho scoperto che stavo solo perdendo il mio tempo. Poi ho trovato la risposta.

Perché? Perché non c’è risposta! Ho detto.

E la nonna ha riso, sbavando, scollando improvviso il labbro inferiore da quello superiore, labbra covate dal torpore ondeggiante del volto eroinico, la nonna ha riso, e aveva due nacchere al posto della bocca, ciangottava divertita e mi diceva di no, che dovevo pensarci e forse oggi ho capito, che si trattava di una cazzata, e che serviva a farmi capire come si possa vivere di cazzate per tutta la vita e guadagnandoci sopra. Mi incoraggiava a non diventare un politico o cose del genere. Sii nulla, mi diceva con inusitato calore, sii nessuno, sparisci, è un modo difficile ma sicuro di trovare la pace, forse l’unico. Oppure impegnati a non comunicare, mai, se non è strettamente necessario. E invece tutto andava esattamente in un modo diverso e che spesso non ricordavo.

Anche io volevo morire e tornare a vivere come la nonna, però di tornare a vivere non ero del tutto convinto. Per fortuna il fantasmino è apparso al momento giusto. Lo dico ora che era un momento giusto, ma allora, il mio unico desiderio era stare da solo e scegliermi la morte che volevo. Insomma stavo per suicidarmi e invece, con la sua solita invadenza è apparso il babbo ologrammatico seduto sul letto, alle mie spalle, ne potevo scorgere il riflesso del viso contro il vetro della portafinestra sulla strada.

La nonna mi ripeteva che Ramon, quel Ramon che ero, aveva una vena comica e una vena tragica, che non s’incontravano mai.

Un giorno, l’ora del tramonto, quando le insegne sono già luminose e sciami di insetti mi vorticano dentro, scendo giù al bar, il neon mi invita, non sento di essere Ramon. Di volare giù al bar, sento solo questo, il neon mi attira e ho visioni multi-oculari, l’occhio composto di infinite ommatidi, l’occhio di un insetto qualunque, morire addosso alla luce.

  

Quarta di copertina

Ramon scorda in continuazione alcune cose del passato e crede d’aver trascorso l’infanzia con una nonna tossicodipendente che gli ripeteva: Si divora sempre ciò che si ama. Ramon, a tratti, è una persona normale, ma la famiglia è una sua proiezione psicotica: la madre è una chiocciola, il padre è un fantasma, le due gemelle sono due corpi con una sola testa e lo zio\a trans igroscopico muta sesso secondo il grado d’umidità dell’aria. Ramon viene arrestato perché ha ucciso e divorato i suoi genitori reali. Lo stesso ha fatto con sua moglie e sua figlia. Non ricorda nulla di tutto ciò. Vive sul crinale tra psicosi e perversione. È dedito, suo malgrado, ad alcool, droghe e sesso promiscuo.

In cella, Ramon racconta la sua vita al dott. Sinclair che trascrive tutto fedelmente. Per tre giorni Ramon scava nel suo passato fino a scoprire la sua vera identità. Sinclair capisce che Ramon è solo una cavia e ne parla al direttore del carcere, lo psichiatra prof. Lindemberg che lo ha incaricato di ascoltare Ramon per capire il motivo del suo continuo oblio. Sinclair scopre un retroscena inquietante ma ne paga le conseguenze. Sinclair, pur essendo innocente, è costretto a sostituire il pazzo criminale Ramon e passerà il resto della sua vita nel carcere psichiatrico di Lindemberg. Ramon si è risposato, e per continuare, a sua insaputa, il folle progetto di Lindemberg, scriverà un romanzo: Mylar…

 

Biografia

Gianluca Garrapa è nato nel 1975, in provincia di Lecce, ha una laurea in lettere moderne. Conduce la trasmissione radiofonica Radio Questa Sera; dipinge, scrive romanzi, racconti, poesie.

Poesie e racconti: Antologia dei Poeti Contemporanei, (Libro Italiano, Ragusa, 1995); Navigando nelle parole,Vol. 23, (edizioni Il Filo, 2006); Antologia dei racconti di Officina, (ETS, Pisa, 2005); un romanzo collettivo La Mente Invisibile (http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=617636). Racconti per la rivista del Collettivomensa, antologia internazionale di racconti anarchici, curata dall’Anarchis Writers Bloc Subversion; Postfazione in forma di de_scrittura al romanzo di Francesco Pasca: Il gesto, (Lupo editore, Lecce, 2011). Performances: Voceluceburattini, (reading di poesia e videoinstallazione, giugno 1998, Arsenale Cult, Pisa); Lettura di Maschere,(reading di poesia e videoinstallazione, luglio 1998, Pontedera)re digitali, (29 gennaio 2003, Centro Culturale IMAGO, Pisa); Spettacolo teatrale ; Gli Assenti, tre atti sul concetto d’assenza, (installazione video-poetica e performance, dicembre 1998, Teatro del Tè, Pisa); performance musicale e videoproiezioni di opel’Abbandono (dicembre 2005, Lucca, regia di Bernardo Cirillo); Reading e videoproiezione nell’ambito dell’iniziativa Okkasioni del Centro Arte Moderna, (gennaio 2006); Breve esperienza al Laboratorio comico di Zelig presso EniCral Livorno. (2010-2011)

Mostre di pittura_descrittura: ElisirArt c\o Galleria Rilievi, Roma (8 luglio 2010 – 8 settembre 2010). D’Altro&d’Amore – Mostra Fotografia – Pittura c/o Centro Imago, Pisa; (20-21 Novembre 2010). In rete: GammmCompostxtRecognitionesPoetarum SilvaMarco Minghetti – Sole24OreMicsu, Scrittori Precari, Viadellebelledonne. Radiofonia: http://www.mixcloud.com/QuestaSera/

Articolo Precedente

Abbado, tutta la vita a infrangere dal podio il muro dell’ignoranza

next
Articolo Successivo

‘Abitare’ chiude, anzi no

next